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sabato 3 ottobre 2015

Don Francesco Cavina: un salesiano dal cuore d'oro.



PROFILO DEL SACERDOTE SALESIANO
Don FRANCESCO CAVINA
1. - Introduzione

O randazzese, che leggi queste righe, puoi non conoscere D. Cavina?
Se sei già avanti negli anni, l'hai conosciuto personalmente; se piccolo, ne avrai sentito parlare come un uomo leggendario dai tuoi e dagli amici.
Un alone di mistero e di santità si di f}onde intorno a questa figura tipica di vero salesiano e sacerdote e perché tu possa maggiormente apprezzare il bene e sentirti incoraggiato ad esso, in questi tempi soffusi solo di egoismo e materialismo, ti voglio mettere sott'occhio le tappe della vita di questo santo sacerdote che tanto ha amato i giovani, onde capirne la gioia che vi è nell'operare il bene.

2. - La vita
Don Francesco Cavina nacque a Marradi (Firenze) il 13 Giugno 1881 da Domenico e Carolina Montuschi. Rimasto ancor piccolo, orfano di padre, alla scuola del dolore, comprese l'amarezza della vita senza conforti e senza mezzi. Dopo la scomparsa del padre dovette subito darsi al lavoro manuale per sostenere la famiglia e, già anziano, ricordava agli amici e a coloro cui portava conforto, di avere dovuto lavorare per vario tempo come muratore, finché la Provvidenza, che gli aveva messo nel cuore la scintilla della carità, gli mandò nella famiglia Cattani i benefattori che lo avviarono, a proprie spese, al sacerdozio e così, già dodicenne, poté entrare nell'Istituto salesiano di Firenze dove intraprese gli studi classici fino alla IV classe del ginnasio. E di qui le tappe successive furono raggiunte con impegno e profitto: Ivrea, Foglizzo (1900), dove si ascrisse definitivamente, sotto la guida di un grande forgiatore di salesiani, Don Bianchi, con i voti perpetui, alla Congregazione Salesiana (1901), Torino, Valsalice, dove conseguì il diploma di Licenza Normale, che gli tracciò il curricolo della sua vita al servizio dei giovanetti.
Nello stesso anno l'ubbidienza lo mandò in Sicilia e propriamente in questa casa salesiana di Randazzo che doveva essere il campo del suo apostolato, la sua città di elezione, dove rifulse la sua instancabile attività e carità.
Iniziò il suo insegnamento nelle scuole elementari; si dedicò, anima e corpo all'oratorio per i giovani del paese; si fece piccolo con i piccoli ed era commovente vedere Don Cavina, fino agli ultimi anni della sua permanenza a Randazzo, giocare e correre con le stampelle, con un viso atteggiato al sorriso e alla bontà e girare per le vie che conducevano all'Oratorio (e tutte le vie conducevano all'oratorio) circondato da una massa di giovanetti che man mano diventavano più numerosi, scherzando, ridendo, in un vario confuso pigliare d'assalto le sue mani, attirare la sua attenzione; da questi giovani così trattati uscirono in quegli anni non poche vocazioni religiose che egli curava in modo particolare.
In mezzo a questo turbinio di lavoro l'attendeva un altro dovere: la preparazione al sacerdozio e nel 1910 fu coronato il sogno del piccolo muratore, diventando sacerdote di Cristo.
Sacerdote di pietà, di esempio nella mortificazione, dizelo, scelse come precipuo dovere della sua vita e del suo apostolato la cura dei poveri e soprattutto i ragazzi poveri. Un confratello che gli fu tanti anni a fianco, amico e fratello, ha lasciato scritto:
« Non sono mai riuscito a misurare la carità che riempiva l'animo suo e lo costringeva ad operare. Mille e mille erano le industrie che egli escogitava per venire in soccorso dei poveri ».
E di questo spirito di carità eroica, molti sono gli esempi che infiorarono la sua vita in tutti i posti in cui la sua condizione di religioso lo portò.
Passato il turbinoso periodo della prima grande guerra come soldato della sanità, ritornò a Randazzo dove si fermò fino al 1926, anno in cui fu mandato, per un periodo di riposo nella casa salesiana di S. Gregorio di Catania ad attendere alla formazione dei Novizi, in qualità di aiutante del Maestro D. Luchino. Sentì il trasferimento da Randazzo ma lo sopportò da buon religioso dedicandosi anche lì con entusiasmo al suo lavoro di apostolato tra i giovani e i poveri del paese.
Nel 1927 lo troviamo all'Orfanotrofio di Marsala e di là, l'anno dopo, ritorna alla sua Randazzo dove ancora si ferma lavorando indefessamente per altri dieci anni.
Ma la sua salute declinava rapidamente: le privazioni volontarie, le fatiche indefesse, il lavoro assillante avevano minato la sua fibra già scossa dai disagi della guerra e a richiesta dei medici, fu inviato a Taormina dove subì il primo attacco del male che lo obbligò al riposo assoluto: assistito fraternamente da D. Barbero arrivò quasi agli estremi tanto che un giorno lo si credette morto, e si stava procedendo alla composizione della salma quando un leggero movimento del pollice rivelò agli astanti la verità. E sul letto del suo dolore diceva sempre che la sua croce maggiore era di vedere tutti lavorare nel fervore delle opere dell'oratorio e della scuola ed egli vedersi costretto alla inazione, e la sua vena di serena allegria esternata sempre dal sorriso tanto facile sulle sue labbra, incoraggiava tutti e suscitava la se­renità nei cuori con le sue barzellette e con il suo esempio di pietà sentita. La seconda guerra mondiale lo trovò a S. Agata di Mi­litello da dove accompagnò a Randazzo, creduto il centro più lontano dalla guerra e perciò il più sicuro, il suo vec­chio e caro direttore D. Giacomo Angeleri. E fu la tragedia dei loro cuori: questi due uomini che avevano fatto il pos­sibile e l'impossibile per il Collegio S. Basilio l'uno e per il popolo randazzese l'altro, in cui avevano speso le loro più elette energie, la loro attività indefessa, cui avevano dato il meglio di loro stessi, dovettero assistere impassibili, nel declino della loro esistenza alla distruzione del Collegio e di quel paese che tanto amavano. Il tramonto della loro vita terrena fu accompagnato da questa visione di apocalit­tica distruzione delle cose che avevano amato e curato per decenni.
Don Angeleri muore a Palermo il 2 Marzo 1944 e Don Cavina, più rimesso in salute, fu trasferito in un clima più caldo a Trapani dove non stette in riposo: parrocchia, o oratorio, poveri, ammalati furono in breve tratto, le sue cure, ma una ricaduta repentina del suo vecchio male lo fece mancare ai vivi quasi improvvisamente, mentre in chie­sa echeggiavano gli inni e le lodi che i giovani cantavano in occasione della festa del S. Cuore di Gesù, di cui era tanto devoto.
Era il 28 Giugno 1946.
Questo il curricolo della vita terrena di D. Cavina. Ma la sua azione nell'Apostolato Sacerdotale, la sua Carità im­prontata a delicatezza e dedizione, le sue doti di mente e di cuore costituiscono la vera linea morale direttiva della sua personalità che non si può adeguatamente conoscere per il carattere riservato di tutte le sue opere ma di cui possiamo sentire un'eco dalle testimonianze degli amici, dei beneficati, dei carissimi discepoli.


3. - Testimonianze degli ex-allievi.

L'Oratorio dell'A B C
Primo a raggiungere la Chiesa di S. Domenico, ceduta all'Opera Salesiana con l'annesso cortile per Oratorio, era D. Cavina, accompagnato sempre da un gruppo di ragazzi, che  man mano diventavano numerosissimi.
Il mattino si giocava con i trampoli prima della S. Mes­sa e ricordo che fu proprio D. Cavina ad insegnarmi a stare sui trampoli e spesse volte gareggiava con me, dandomi na­turalmente la possibilità di vincere; quella assistenza poi così paterna ed affettuosa non era solo per me o per pochi ma era per tutti: perfetto seguace del metodo preventivo di D. Bosco era sempre presente, sempre caritatevole, sem­pre sorridente. Mai si andava via dall'Oratorio senza la ca­ramella o l'immaginetta o le nocciole o le castagne o qualche altra cosa che riusciva ad ottenere dalla generosità dei be­nefattori. Per la festa dell'Immacolata non c'era più posto in Chiesa, i ragazzi sedevano persino sugli altari. La cele­brazione della S. Messa generalmente era affidata a D. Bar­bero, D. Amistani badava alle Confessioni e a suonare l'ar­monium mentre D. Cavina con i giovani aiutanti, tutti for­mati alla sua amorevole e dolce scuola, badava ai bambini aiutandoli nella preghiera, nei canti e soprattutto assisten­doli in modo che non si facessero male.
Dopo l'Oratorio D. Cavina raramente tornava in Col­legio, il suo posto era presso i poveri, sempre accompagnato da uno o due ragazzi e io personalmente gli fui vicino fino al 1937: le sue tasche, trasformate in grossi sacchetti, nascoste dall'ampiezza della veste talare, erano ricolme di pane e di tutto ciò che era riuscito ad avere o dalla benevolenza dei benestanti d'allora, che mai si rifiutavano di dare a Don Cavina, o dalla cucina e dal magazzino del Collegio.                                                                                                                                    Ricordo quel che soleva dire D. Angeleri: - Ogni qualvolta ho delle visite ed offro del caffè non riesco a ca­pire come mai, rientrando in direzione, trovo sempre la zuccheriera priva di zucchero - D. Angeleri sapeva benissi­mo chi era stato a svuotarla e sapeva pure che con quello zucchero sarebbe stato aiutato qualche povero ammalato; erano tempi quelli in cui lo zucchero era un lusso di pochi fortunati.
Quando poi doveva far visita, e questo avveniva tutti i giorni, ai suoi poveri, generalmente ammalati e vecchi, es­seri abbandonati nella più squallida miseria, allora non si avevano né la-pensione di vecchiaia né altre forme di pre­videnze atte a sollevare la miseria e la fame, dico la fame e generalmente la più nera fame, si liberava del nuvolo di bambini che accorrevano al suo passaggio, e, accompagnato da me o da qualche altro, si portava nelle abitazioni dei suoi poveri, dove in stanze mefitiche, prive di aria e di lu­ce, su luridi pagliericci giaceva qualche essere, che avvolto in stracci, era l'ombra di un essere umano. Spesso però si serviva di noi ragazzi: quante volte io stesso fornito di un sacchetto mi spingevo fino a Murazzorotto dove portavo quel po' di ben di Dio a due vecchietti che abitavano in un tu­gurio, sperduto in mezzo ad un boschetto, dove, facilmente, neppure le Autorità del tempo sapevano che vi abitassero due esseri umani. D. Cavina li chiamava i suoi nonnini. Do­vunque arrivava la sua carità, il suo amore, il suo desiderio ardente di lenire le sofferenze: ero ragazzetto e certe im­pressioni avute da ragazzo non si dimenticano tanto facil­mente: ricordo la vecchietta di Via Orzieri, di Via Percia­bosco, ecc. ecc.
Ma l'attività di D. Cavina non si fermava solo alla ca­rità verso i poveri, pensava pure alle vocazioni salesiane: con quanto amore curava quei giovani che manifestavano il desiderio di divenire sacerdoti! Spesso li chiamava in came­ra sua dove trovava sempre la possibilità di farli lavorare, pur di allontanarli dai pericoli della strada. Dalla sua ca­mera non si usciva mai con le mani vuote: o la caramella o il dolcino o il libro, c'era sempre qualche cosa... A questi ragazzi dava sempre qualche incarico, dando loro all'orato­rio la possibilità di iniziare l'apostolato con l'assistenza e con l'insegnamento della dottrina cristiana ai più piccoli.
Anche durante le vacanze non veniva meno la sua as­sistenza, tutti i giorni era presente in mezzo a noi, fornen­doci di qualche palla o di quei giochi che potevano rendere liete le nostre ore.
FIORETTI
I. - Una sera d'inverno, rigido, umido, melmoso, Don Cavina tornava a tarda ora salendo il colle di D. Bosco alla casa salesiana che per prima sorse in Sicilia. In quale anno? Lo aspettavano, oltrepassata l'ora di cena, i confratelli e qualcuno dei così detti Cooperatori, nella lunga e stretta sala da pranzo, che l'indimenticabile D. Arisi chiamava il budello. Terminata la cena, D. Paolo Amistani andò a cercare D. Cavina e lo trovò a desinare nella sua stanzetta, seduto ad un tavolo e senza scarpe.
Si vergognava di scendere giù nel refettorio e noi sa­limmo sopra, preoccupati per la sua salute. Lo trovammo ilare e sereno. Raccontò che tornando a casa aveva trovato un nobile decaduto che saliva faticosamente al Collegio per avere la consueta razione di viveri che il buon D. Angeleri, direttore di quel tempo non gli faceva mai mancare.
«E le scarpe nuove che le ho dato proprio stamattina?»
disse don Angeleri. « Le ho passate a quel poveretto che aveva le scarpe rotte, senza suole e per di più non aveva calze; i piedi nudi poggiavano sulla neve melmosa. Io son venuto su con le calze di lana ».
Ecco l'educatore! Questo fatterello semplice, di poco conto, mostra tutto D. Cavina e la sua vita dedicata ad istrui­re ed educare con la parola e con l'esempio migliaia di gio­vani; vita che si chiuse il 26 Giugno 1946 nell'Istituto Sa­lesiano di Trapani.
Nei moltissimi anni trascorsi nel nostro collegio tra al­lievi e Sempre-allievi lasciò un ricordo incancellabile delle sue alte virtù di mente e di cuore: lui che amò di uguale affetto S. Francesco d'Assisi e D. Bosco.
Dottissimo, argutissimo, manzoniano puro, soleva dire spesso: « Un sorriso asciuga una lacrima, e noi dovremmo amare il 13rossimo più di noi stessi ».
Formava con Don Arisi, Don Amistani e Don Barbero il quadrumvirato della dottrina e della virtù in atto. Racco­glieva in cucina e nel refettorio tutto ciò che rimaneva; presso i privati raccoglieva tutto ciò che poteva allietare la mensa arida, diceva lui, dei bisognosi; mensa che aveva per primo piatto erba cotta e per secondo, ed ultimo, erba cru­da. Quando non era la mensa del tutto discreta. Ed aveva, anche per i poveri, qualche pipa, tabacco e sigarette. « Fu­mare non è peccato, e se fuma il ricco può fumare anche il povero », ripeteva spesso.

II. - Era grande la sua carità verso i poveri ammalati cui si premurava di procurare medicine e assistenza di ogni genere; e nella sua carità sceglieva sempre coloro che erano più bisognosi e gli ammalati incurabili. Sono ancora vivi nel ricordo degli amici: « gna Peppa » del Murazzotto nella più squallida miseria materiale e morale, che attendeva con ansietà la visita di D. Cavina o dei messi inviati da lui; la povera di Via Orzieri o alla Via Locanda, paralitica e im­mobile su un povero pagliericcio disteso a terra; un ammala­to di cancro abitante sotto l'arco di Via Saletti che ogni mattina visitava e curava con attenzione materna prodigandogli anche i servizi più umili e lavando, da buon samaritano, tut­to il putridume che copriva la ferita; e un altro ancora affetto di un tumore purulento all'orecchio, solo e abbandonato dai parenti, che attendeva con ansietà i servizi di D. Cavina.
E quante madri indigenti ricevettero pannolini ed ef­fetti necessari da D. Cavina, ricercati con cura e con insisten­za presso i vari amici e benefattori del paese. Conosceva le buone mamme di famiglia già anziane e a loro si rivolgeva perché si disfacessero di capi di biancheria ormai inutili nelle loro case.
III. - Uh giorno egli, lemme lemme si dirigeva verso il cimitero: amava le passeggiatine solitarie verso il campo­santo che tanta suggestività suscitavano nel suo cuore porta­to alla meditazione del mistero della morte cristiana.
In quella stradetta che, parallela alla strada grande per il cimitero, era costituita da catapecchie e fienili, una povera donna era appoggiata ad un muro a prendere il pal­lido sole di dicembre, infagottata in cenci a brandelli e male odoranti che poco la difendevano dall'intemperie del­l'inverno. D. Cavina si avvicina, la saluta, la osserva e un senso di pietà, davanti a tanta miseria, inonda il suo cuore. Non aveva nulla nelle sue capaci tasche, non un soldino nel suo borsellino e davanti a lui una povera anima che soffriva coperta di miseria e di vergogna. Le dà un saluto, una pa­rola di incoraggiamento e precipitosamente ritorna indietro. Gira per i negozi di stoffa degli amici e benefattori e riesce ad ottenere ciò che cerca da un amico carissimo. Fa confe­zionare da altri amici mutande, camicie, vestiti e qualche giorno dopo va a portare ogni cosa a quella povera donna paralitica che da tempo non vedeva tanto bene.
IV. - Un giorno si presenta ad un amico che gestiva un forno ben attrezzato. Era il fornaio del Collegio e tanto amico di D. Cavína che spesso lo visitava. Quel giorno Don Cavina ha bisogno di molto pane, ma pochi sono i soldi di cui dispone.
- Don Peppino, lo interpella D. Gavina, ho bisogno di una tasca di pane, ma ho pochi soldi da darle.
- Beh, mi dia quel che può, risponde l'interpellato, e pigli pure tante pagnottelle quante può metterne in una ta­sca. (Egli sapeva sì che le tasche di D. Cavina erano più che capaci, ma si era fatto il conto che non potessero contenere più di dieci pagnottelle).
D. Cavina cominciò ad intascare le pagnottelle e arriva a dieci, ma la tasca non è piena; ne mette altre cinque, ma ancora ce me stanno; altre cinque ancora e rimane spa­zio; si son fatte venticinque e ce ne vanno ancora, e il povero amico così ingannato, mette fine all'operazione-pane con una frase spiritosa:
- D. Cavina, la prego, le restituisco le due lire, e ar­rivederci!
V. - Anche le galline conoscevano la carità di D. Cavi­na. Per chi entrava in iscuola a S. Domenico rimase prover­biale « la gallina zoppa » di D. Cavina. Quando egli spun­tava dalla Via Clarentano circondato da una turba di ra­gazzi che lo seguivano vociando, si faceva avanti, incurante del chiasso, una gallina zoppa che gli andava vicino e passo passo lo seguiva fin dentro il cortile, finchè D. Cavina si fermava, la carezzava e le dava a beccare le numerose bri­ciole di cui erano piene le sue tasche.
VI. - Mille erano le industrie per procurarsi il necessa­rio da distribuire ai suoi poveri.
Andava a trovare le famiglie amiche e invece di mangiare i biscotti offertigli, li riponeva in tasca per i suoi po­veri; alla fine del pranzo girava per il refettorio dei collegia­li e raccoglieva abbondantemente tutto ciò che avanzava e quindi barcollando con quei due sacchi ripieni, partiva per il giro pomeridiano dei suoi poveri: frutta, pane, carne, formaggio e qualche volta anche intere bottiglie di vino che davano un momento di gioia a chi mancava del neces­sario o caffettiere di latte per i poveri ammalati.
VII. - Un giorno incontra un amico carissimo, potrem­mo farne il nome; lo ferma, discorre con lui e quello ac­cende una sigaretta.
- Oh, don Ciccio, non mi offri nemmanco una siga­retta? - gli dice D. Cavina.
Quello prontamente gli offre il pacchetto perché si serva. Egli lo piglia, lo intasca tutto intero e quindi gli dice:
- Questo in conto di quante me ne avete avresti do­vuto dare da tanto tempo. Ma ci conosciamo da tanti anni e un pacchetto è ben piccola cosa in rispetto a quante avresti dovuto offrirmene.
L'altro capisce. Mette fuori il portafoglio e gli offre dieci lire e allora il sorriso compiaciuto di D. Cavina gli dice che era proprio quello che egli si attendeva con la sua ri­chiesta.
VIII. - La sua vita era l'Oratorio, le Associazioni, la A. C., il Teatro.
Il periodo turbolento del 1930-31 portò all'attrito tra la Chiesa e lo Stato.
Le orde dei giovinastri fascisti assaltarono le sedi del­l'A.C. Anche quella dell'Oratorio fu oggetto di persecuzione e fu uno spettacolo insolito ed impressionante quando i gio­vani oratoriani furono assaliti a randellate da un'orda di scalmanati.
D. Cavina si ricordò di essere stato militare, afferrò uno degli assalitori, gli strappò il bastone e messosi in mezzo ai suoi giovani, intimidì talmente gli avversari che battero­no prontamente in ritirata.
IX. - Bravissimo attore e regista di teatro, l'arma edu­cativa di D. Bosco, passava il tempo libero della sera a cu­rare la filodrammatica dell'Oratorio e riuscì a formare una scuola di bravi attori ancora ricordati.            .
Fu in ottobre che si era preparata l'operetta in musica di D. Cimatti, « Raggio di Sole » e la sera della recita, l'at­tore principale si ammalò improvvisamente. Come sostituir­lo? D. Cavina avrebbe potuto, se avesse avuta una buona voce, ma egli era notoriamente sfornito di tale dono di na­tura. E allora? ...Si esibisce ugualmente e mentre egli magi­stralmente, recita sulla scena, un altro dietro le quinte canta per lui accompagnando con una mimica tanto perfetta il canto che nessuno si accorge del trucco e tutti si meravi­gliano della non conosciuta dote di D. Cavina.

X. - Gli amici, tutto erano per lui come lui era tutto per gli amici.
Ho qui la testimonianza di un antico allievo che tro­vatosi improvvisamente in serie difficoltà economiche fu aiutato da D. Cavina in ogni maniera, anche con una som­ma allora esorbitante (lire mille) che gli fu restituita solo dopo tanto tempo; in seguito si seppe che quella somma egli i aveva ottenuta in prestito.

XI. - Un ex-allievo scrive:
L'ultimo mio incontro con D. Cavina l'ho avuto per un anno intero a S. Agata di Militello, dove non ero più il ragazzetto di Randazzo ma un insegnante: D. Cavina mi era sempre vicino con il suo affetto, con i suoi consigli, e in certe circostanze con una più che paterna autorità. Si era nel periodo dell'invasione e D. Cavina soffriva perché non poteva esternare il suo amore per i poveri con quella effusione con cui lo aveva fatto a Randazzo. Tutto era razio­nato ma la sua razione andava a finire a qualche povero che nel suo breve soggiorno di S. Agata gli era divenuto amico. Ma anche a S. Agata il suo cuore era sempre rivolto a Ran­dazzo. Voglio ricordare l'amore suo anche per gli animali. Sono stato testimone oculare: nella sua cameretta venivano continuamente a fargli visita una lucertolina e un passerotto cui dava delle briciole di pane o faceva trovare una scato­letta con dell'acqua. Il passerotto entrava persino dentro, lui presente, e si posava sul tavolo dove riceveva dalle sue mani le imbeccate.

        XII. - Don Cavina che era dotato di un cuore sacer­dotale delicatamente sensibile, avendo compreso la profon­dità del solco che la morte aveva scavato nell'animo di una signora per l'immatura scomparsa di un caro parente, sa­cerdote salesiano, spesso la visitava. Quando poi detta si­gnora ebbe offerto alla Famiglia Salesiana il figlio, « il suo tesoro », come lo chiamava, D. Cavina, grato di questa ge­nerosa donazione, continuò la sua mansione di visitatore in quella casa, rimasta quasi vuota. E fu per questo che un giorno a lui toccò trangugiare un bicchiere di fortissimo aceto, più adatto per l'insalata. La signora infatti aveva stu­rato una bottiglia di « vermouth » che campeggiava nella credenza in mezzo alle altre stoviglie.
- La prego, D. Cavina, è opera mia. E' genuino... ben riposato... mi accontenti; ne gusti un altro bicchierino!
- Oh no, Signora! - soggiunse sorridendo il buon salesiano - ne resterà di più per un'altra visita che non sarà lontana!
Così dicendo si accomiatò.
Impressionata dall'insolita premura di D. Cavina, la signora, rimasta sola, volle assaggiare il « vermouth ». Q confusione... Come poteva dire, mentre lo sorseggiava, che era ottimo? Come poteva lodare la sua abilità? Ed ora come riparare? Andare al Collegio per chiedergli scusa? Quasi telepaticamente il penare della signora fu compreso da D. Cavina e dal suo immediato ritorno scaturì una schiet­ta risata fra entrambi e questo restò impresso nella memo­ria dei nipoti.

XIII. - Nel 1934, la prima domenica di giugno - scri­ve un altro ex-allievo - in cui si festeggia Maria SS. An­nunziata, ho visto D. Cavina in mezzo alla folla che assie­pava le bancarelle del mercato, con un ragazzino sui dieci anni. Questo era poveramente vestito, con i piedi del tutto nudi. Lo seguii con lo sguardo da lontano ed ecco D. Cavina che si avvicina al negoziante di scarpe, sceglie un paio di scarpette, contratta e le acquista per il bambino che felice le calza subito.
L'anno seguente, 1935 - non ricordo il giorno - ero vicino a casa mia, in via S. Giacomo, dove abito fin dal 1925, quando sento un vociare confuso che attrae la mia atten­zione. Erano molti miei vicini e vicine a gruppo che con meraviglia e ammirazione sussurravano:
- « E' andato scalzo al Collegio! Ha dato le scarpe sue ad un poverello! E' D. Cavina! ».

XIV. - D. Cavina nel 1938 partì da Randazzo e per un periodo di riposo fu trasferito a Taormina.
Anche lì continuò la sua missione di carità e non vi fu alcuno del personale degli alberghi che non lo conoscesse e gli venisse in aiuto per aiutare i numerosi poveri che già nel giro di pochi mesi aveva conosciuti.
Anche a Taormina amava le passeggiate solitarie. Un giorno si dirigeva lentamente per il sentiero che dalla citta­dina conduce alla chiesa di S. Maria della Rocca, sotto il castello. La stradetta, tutta in salita, è solitaria, solo l'az­zurro del cielo e il cinguettio degli uccelli accompagnavano l'animo semplice di D. Cavina. Ma ecco ad una svolta un povero uomo, distrutto dagli anni e dagli stenti, che va su, appoggiandosi ad un bastone, carico di una fascina di legna da ardere. E' vecchio e deperito. Il suo passo è tanto lento che sembra quasi che non si muova, anzi ad un certo punto vacilla e cade. D. Cavina gli è vicino, lo solleva, gli dice una buona parola, mette fuori dalle sue tasche qualche cosa che l'altro afferra con gioia e quindi, presa la fascina sopra le sue spalle lo accompagna fino al santuario della Madonna della Rocca.
Molti altri fatti si potrebbero raccontare qui per far conoscere lo spirito di generosa carità che animò tutta la vita di questo degnissimo figlio di Don Bosco.
Tutti i-randazzesi che lo conobbero nei lunghi anni che lui, toscano di nascita, trascorse a Randazzo, ne parlano ancora sempre con ammirazione e con tanto affetto.
Che il suo ricordo desti nel cuore dei randazzesi, da Lui prediletti, sentimenti di carità e di bontà verso i poveri e i bisognosi.

XV. - Omaggio di una ammiratrice:
DON CAVINA RITORNA
Finalmente ritorni fra noi
di D. Bosco figliolo diletto,
e Randazzo con memore affetto ti riceve con gioia ed amor!
Don Cavina
Don Francesco Cavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Quando scalzo al Collegio tornasti in un giorno di crudo rigore ché le scarpe ad un egro donasti su nel ciel sorrideva Gesù.
Don Cavina
Don Francesco Gavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Per le lacrime che tu asciugasti per il bene che a molti facesti per l'amore che a tutti portasti grande premio ricevi lassù.
Don Cavina
Don Francesco Cavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Fiordispino




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