PROFILO DEL SACERDOTE
SALESIANO
Don FRANCESCO CAVINA
1.
- Introduzione
O randazzese, che leggi queste righe, puoi
non conoscere D. Cavina?
Se sei già avanti negli anni, l'hai
conosciuto personalmente; se piccolo, ne avrai sentito parlare come un uomo
leggendario dai tuoi e dagli amici.
Un alone di mistero e di santità si di f}onde
intorno a questa figura tipica di vero salesiano e sacerdote e perché tu possa
maggiormente apprezzare il bene e sentirti incoraggiato ad esso, in questi
tempi soffusi solo di egoismo e materialismo, ti voglio mettere sott'occhio le
tappe della vita di questo santo sacerdote che tanto ha amato i giovani, onde
capirne la gioia che vi è nell'operare il bene.
2.
- La vita
Don
Francesco Cavina nacque a Marradi (Firenze) il 13 Giugno 1881 da Domenico e
Carolina Montuschi. Rimasto ancor piccolo, orfano di padre, alla scuola del dolore,
comprese l'amarezza della vita senza conforti e senza mezzi. Dopo la scomparsa
del padre dovette subito darsi al lavoro manuale per sostenere la famiglia e,
già anziano, ricordava agli amici e a coloro cui portava conforto, di avere
dovuto lavorare per vario tempo come muratore, finché la Provvidenza, che gli
aveva messo nel cuore la scintilla della carità, gli mandò nella famiglia
Cattani i benefattori che lo avviarono, a proprie spese, al sacerdozio e così,
già dodicenne, poté entrare nell'Istituto salesiano di Firenze dove intraprese
gli studi classici fino alla IV classe del ginnasio. E di qui le tappe
successive furono raggiunte con impegno e profitto: Ivrea, Foglizzo (1900),
dove si ascrisse definitivamente, sotto la guida di un grande forgiatore di
salesiani, Don Bianchi, con i voti perpetui, alla Congregazione Salesiana
(1901), Torino, Valsalice, dove conseguì il diploma di Licenza Normale, che gli
tracciò il curricolo della sua vita al servizio dei giovanetti.
Nello
stesso anno l'ubbidienza lo mandò in Sicilia e propriamente in questa casa
salesiana di Randazzo che doveva essere il campo del suo apostolato, la sua
città di elezione, dove rifulse la sua instancabile attività e carità.
Iniziò
il suo insegnamento nelle scuole elementari; si dedicò, anima e corpo
all'oratorio per i giovani del paese; si fece piccolo con i piccoli ed era
commovente vedere Don Cavina, fino agli ultimi anni della sua permanenza a
Randazzo, giocare e correre con le stampelle, con un viso atteggiato al sorriso
e alla bontà e girare per le vie che conducevano all'Oratorio (e tutte le vie
conducevano all'oratorio) circondato da una massa di giovanetti che man mano
diventavano più numerosi, scherzando, ridendo, in un vario confuso pigliare
d'assalto le sue mani, attirare la sua attenzione; da questi giovani così
trattati uscirono in quegli anni non poche vocazioni religiose che egli curava
in modo particolare.
In
mezzo a questo turbinio di lavoro l'attendeva un altro dovere: la preparazione
al sacerdozio e nel 1910 fu coronato il sogno del piccolo muratore, diventando
sacerdote di Cristo.
Sacerdote
di pietà, di esempio nella mortificazione, dizelo, scelse come precipuo dovere
della sua vita e del suo apostolato la cura dei poveri e soprattutto i ragazzi
poveri. Un confratello che gli fu tanti anni a fianco, amico e fratello, ha
lasciato scritto:
«
Non sono mai riuscito a misurare la carità che riempiva l'animo suo e lo
costringeva ad operare. Mille e mille erano le industrie che egli escogitava
per venire in soccorso dei poveri ».
E
di questo spirito di carità eroica, molti sono gli esempi che infiorarono la
sua vita in tutti i posti in cui la sua condizione di religioso lo portò.
Passato
il turbinoso periodo della prima grande guerra come soldato della sanità,
ritornò a Randazzo dove si fermò fino al 1926, anno in cui fu mandato, per un
periodo di riposo nella casa salesiana di S. Gregorio di Catania ad attendere
alla formazione dei Novizi, in qualità di aiutante del Maestro D. Luchino.
Sentì il trasferimento da Randazzo ma lo sopportò da buon religioso dedicandosi
anche lì con entusiasmo al suo lavoro di apostolato tra i giovani e i poveri
del paese.
Nel
1927 lo troviamo all'Orfanotrofio di Marsala e di là, l'anno dopo, ritorna alla
sua Randazzo dove ancora si ferma lavorando indefessamente per altri dieci
anni.
Ma la sua salute
declinava rapidamente: le privazioni volontarie, le fatiche indefesse, il
lavoro assillante avevano minato la sua fibra già scossa dai disagi della
guerra e a richiesta dei medici, fu inviato a Taormina dove subì il primo
attacco del male che lo obbligò al riposo assoluto: assistito fraternamente da
D. Barbero arrivò quasi agli estremi tanto che un giorno lo si credette morto,
e si stava procedendo alla composizione della salma quando un leggero movimento
del pollice rivelò agli astanti la verità. E sul letto del suo dolore diceva
sempre che la sua croce maggiore era di vedere tutti lavorare nel fervore delle
opere dell'oratorio e della scuola ed egli vedersi
costretto alla inazione, e la sua vena di serena allegria
esternata sempre dal sorriso tanto facile sulle sue labbra, incoraggiava tutti
e suscitava la serenità nei cuori con le sue
barzellette e con il suo esempio di pietà sentita. La seconda guerra mondiale lo trovò a S. Agata di Militello da dove accompagnò a Randazzo, creduto il centro più lontano dalla guerra e perciò il più sicuro, il suo vecchio e caro direttore D. Giacomo Angeleri. E fu la tragedia dei loro
cuori: questi due uomini che avevano fatto il possibile e l'impossibile per il Collegio S. Basilio l'uno e per il popolo
randazzese l'altro, in cui avevano speso le loro più elette energie, la loro attività indefessa, cui avevano dato il meglio di loro stessi, dovettero assistere
impassibili, nel declino della loro
esistenza alla distruzione del Collegio e di quel paese che tanto
amavano. Il tramonto della loro vita terrena
fu accompagnato da questa visione di apocalittica distruzione delle cose che avevano amato e curato per decenni.
Don Angeleri muore a Palermo il 2 Marzo 1944 e
Don Cavina, più rimesso in salute, fu trasferito in un
clima più caldo a Trapani dove non stette in riposo:
parrocchia, o oratorio, poveri, ammalati furono in breve tratto, le sue cure,
ma una ricaduta repentina del suo vecchio male lo fece mancare ai vivi quasi improvvisamente, mentre in chiesa echeggiavano gli inni e le lodi che i giovani cantavano in occasione della festa del S. Cuore di Gesù, di cui era tanto devoto.
Era il 28 Giugno 1946.
Questo il curricolo della vita terrena di D. Cavina.
Ma la sua azione nell'Apostolato Sacerdotale, la sua
Carità improntata a delicatezza e dedizione, le sue doti di mente e di cuore costituiscono la vera linea morale
direttiva della sua personalità che
non si può adeguatamente conoscere per
il carattere riservato di tutte le sue opere ma di cui possiamo sentire un'eco dalle testimonianze degli amici, dei beneficati, dei carissimi discepoli.
3. - Testimonianze degli ex-allievi.
L'Oratorio dell'A B C
Primo a raggiungere la Chiesa di S. Domenico, ceduta all'Opera Salesiana con l'annesso cortile per Oratorio, era D. Cavina, accompagnato sempre da un gruppo di
ragazzi, che man
mano diventavano numerosissimi.
Il mattino si giocava con i trampoli prima della
S. Messa e ricordo che fu proprio D. Cavina ad
insegnarmi a stare sui trampoli e spesse volte
gareggiava con me, dandomi naturalmente la possibilità di
vincere; quella assistenza poi così paterna ed affettuosa non era solo per me o per pochi ma era per tutti: perfetto seguace del metodo preventivo di D. Bosco era sempre presente, sempre caritatevole, sempre sorridente. Mai si andava via dall'Oratorio senza la caramella o
l'immaginetta o le nocciole o le castagne o qualche altra cosa che riusciva ad ottenere dalla generosità dei benefattori. Per la festa dell'Immacolata non c'era
più posto in Chiesa, i ragazzi sedevano persino sugli altari. La celebrazione della S. Messa generalmente era affidata
a D. Barbero, D. Amistani badava
alle Confessioni e a suonare l'armonium
mentre D. Cavina con i giovani aiutanti, tutti formati alla sua amorevole e dolce scuola, badava ai
bambini aiutandoli nella preghiera,
nei canti e soprattutto assistendoli in modo che non si facessero male.
Dopo l'Oratorio D. Cavina raramente tornava in Collegio, il suo posto era presso i poveri, sempre accompagnato da uno o due ragazzi e io personalmente gli fui vicino fino al 1937: le sue tasche, trasformate in
grossi sacchetti, nascoste dall'ampiezza della veste talare, erano ricolme
di pane e di tutto ciò che era riuscito ad
avere o dalla benevolenza dei
benestanti d'allora, che mai si rifiutavano di dare a Don Cavina, o dalla cucina e dal magazzino del
Collegio. Ricordo
quel che soleva dire D. Angeleri: - Ogni qualvolta
ho delle visite ed offro del caffè non riesco a capire come mai, rientrando in direzione, trovo
sempre la zuccheriera priva di zucchero - D. Angeleri sapeva benissimo chi era stato a
svuotarla e sapeva pure che con quello zucchero
sarebbe stato aiutato qualche povero ammalato; erano tempi quelli in cui lo
zucchero era un lusso di pochi fortunati.
Quando poi doveva far visita, e
questo avveniva tutti i giorni, ai suoi poveri,
generalmente ammalati e vecchi, esseri abbandonati nella più
squallida miseria, allora non si avevano né la-pensione di
vecchiaia né altre forme di previdenze atte a sollevare la
miseria e la fame, dico la fame e generalmente la più nera fame, si
liberava del nuvolo di bambini che accorrevano al suo
passaggio, e, accompagnato da me o da qualche altro, si
portava nelle abitazioni dei suoi poveri, dove in stanze
mefitiche, prive di aria e di luce, su luridi pagliericci giaceva qualche
essere, che avvolto in stracci, era l'ombra di un
essere umano. Spesso però si serviva di noi ragazzi: quante volte io stesso fornito
di un sacchetto mi spingevo fino a Murazzorotto
dove portavo quel po' di ben di Dio a
due vecchietti che abitavano in un tugurio, sperduto in mezzo ad un
boschetto, dove, facilmente, neppure le
Autorità del tempo sapevano che vi abitassero due esseri umani. D. Cavina li chiamava i suoi nonnini. Dovunque arrivava la sua carità, il suo amore, il
suo desiderio ardente di lenire le
sofferenze: ero ragazzetto e certe impressioni
avute da ragazzo non si dimenticano tanto facilmente: ricordo la vecchietta di
Via Orzieri, di Via Perciabosco,
ecc. ecc.
Ma l'attività di D. Cavina non si
fermava solo alla carità verso i poveri, pensava pure
alle vocazioni salesiane: con quanto amore curava quei
giovani che manifestavano il desiderio di divenire sacerdoti!
Spesso li chiamava in camera sua dove trovava sempre la possibilità di farli
lavorare, pur di allontanarli dai pericoli della strada.
Dalla sua camera non si usciva mai con le
mani vuote: o la caramella o il dolcino o il libro, c'era
sempre qualche cosa... A questi ragazzi dava sempre qualche
incarico, dando loro all'oratorio la possibilità di iniziare
l'apostolato con l'assistenza e con
l'insegnamento della dottrina cristiana ai più piccoli.
Anche durante le vacanze non
veniva meno la sua assistenza, tutti i giorni era
presente in mezzo a noi, fornendoci di qualche palla o di quei giochi che
potevano rendere liete le nostre ore.
FIORETTI
I. - Una sera
d'inverno, rigido, umido, melmoso, Don Cavina tornava a tarda ora salendo il
colle di D. Bosco alla casa salesiana che per prima sorse
in Sicilia. In quale anno? Lo aspettavano, oltrepassata
l'ora di cena, i confratelli e qualcuno
dei così detti Cooperatori, nella lunga e stretta sala da pranzo, che l'indimenticabile D. Arisi chiamava il budello. Terminata la cena, D. Paolo Amistani andò a cercare D. Cavina e lo trovò a desinare nella
sua stanzetta, seduto ad un tavolo e senza scarpe.
Si vergognava di scendere giù nel
refettorio e noi salimmo sopra, preoccupati per la
sua salute. Lo trovammo ilare e sereno. Raccontò che tornando a casa aveva
trovato un nobile decaduto che saliva faticosamente al
Collegio per avere la consueta razione di viveri che il buon D. Angeleri, direttore di quel tempo non gli faceva mai mancare.
«E le scarpe nuove che le ho dato proprio stamattina?»
disse don Angeleri. « Le ho passate a
quel poveretto che aveva le scarpe rotte, senza suole e per di più non aveva calze; i piedi nudi poggiavano sulla neve melmosa. Io son venuto su con le calze di lana ».
Ecco l'educatore! Questo
fatterello semplice, di poco conto, mostra tutto D. Cavina e la sua vita dedicata ad istruire ed educare con la parola e con l'esempio migliaia di giovani; vita che si chiuse il 26 Giugno 1946 nell'Istituto Salesiano di
Trapani.
Nei moltissimi anni trascorsi nel
nostro collegio tra allievi e Sempre-allievi lasciò un
ricordo incancellabile delle sue alte virtù di mente e di cuore: lui che amò di uguale affetto S. Francesco d'Assisi e D. Bosco.
Dottissimo, argutissimo,
manzoniano puro, soleva dire spesso: « Un sorriso asciuga una
lacrima, e noi dovremmo amare il 13rossimo più di noi
stessi ».
Formava con Don Arisi, Don
Amistani e Don Barbero il quadrumvirato della dottrina e
della virtù in atto. Raccoglieva in cucina e nel refettorio
tutto ciò che rimaneva; presso i privati raccoglieva tutto
ciò che poteva allietare la mensa arida, diceva lui, dei
bisognosi; mensa che aveva per primo piatto erba cotta e per
secondo, ed ultimo, erba cruda. Quando non era la mensa del tutto discreta. Ed
aveva, anche per i poveri, qualche pipa, tabacco e
sigarette. « Fumare non è peccato, e se fuma il
ricco può fumare anche il povero », ripeteva spesso.
II. - Era grande la
sua carità verso i poveri ammalati cui si premurava di procurare
medicine e assistenza di ogni genere; e nella sua carità sceglieva sempre
coloro che erano più bisognosi e gli ammalati
incurabili. Sono ancora vivi nel ricordo degli amici: « gna Peppa » del Murazzotto nella più squallida miseria materiale
e morale, che attendeva con ansietà la visita di D. Cavina o
dei messi inviati da lui; la povera di Via
Orzieri o alla Via Locanda, paralitica e immobile su
un povero pagliericcio disteso a terra; un ammalato di cancro
abitante sotto l'arco di Via Saletti che ogni mattina visitava e curava con attenzione materna prodigandogli anche i servizi più umili e lavando, da buon
samaritano, tutto il putridume che
copriva la ferita; e un altro ancora affetto di un tumore purulento all'orecchio, solo e abbandonato dai
parenti, che attendeva con ansietà i servizi di D. Cavina.
E quante madri indigenti
ricevettero pannolini ed effetti necessari da D. Cavina, ricercati con cura e
con insistenza presso i vari amici e benefattori del paese.
Conosceva le buone mamme di famiglia già anziane e a loro si
rivolgeva perché si disfacessero di capi di biancheria ormai inutili nelle loro case.
III. - Uh giorno
egli, lemme lemme si dirigeva verso il cimitero: amava le
passeggiatine solitarie verso il camposanto che tanta suggestività
suscitavano nel suo cuore portato alla meditazione del mistero
della morte cristiana.
In quella stradetta che, parallela alla strada grande per il cimitero, era costituita da
catapecchie e fienili, una povera donna
era appoggiata ad un muro a prendere il pallido sole di
dicembre, infagottata in cenci a brandelli e male odoranti che poco la difendevano dall'intemperie dell'inverno. D. Cavina si avvicina, la saluta, la osserva e un senso di pietà, davanti a tanta miseria, inonda
il suo cuore. Non aveva nulla nelle sue capaci tasche, non un
soldino nel suo borsellino e davanti a lui una povera anima
che soffriva coperta di miseria e di vergogna. Le dà un
saluto, una parola di incoraggiamento e precipitosamente
ritorna indietro. Gira per i negozi di stoffa degli
amici e benefattori e riesce ad ottenere ciò che cerca da un
amico carissimo. Fa confezionare da altri amici mutande,
camicie, vestiti e qualche giorno dopo va a portare ogni cosa a quella povera donna paralitica che da tempo non vedeva tanto bene.
IV. - Un giorno si presenta ad un amico che gestiva un forno ben attrezzato. Era il fornaio del Collegio e tanto amico
di D. Cavína che spesso lo
visitava. Quel giorno Don Cavina ha bisogno
di molto pane, ma pochi sono i soldi di cui dispone.
- Don Peppino, lo interpella D.
Gavina, ho bisogno di una tasca di pane, ma ho pochi
soldi da darle.
- Beh, mi dia
quel che può, risponde l'interpellato, e pigli pure tante pagnottelle
quante può metterne in una tasca. (Egli sapeva sì che le tasche di D. Cavina erano
più che capaci, ma si era fatto il conto
che non potessero contenere più di
dieci pagnottelle).
D. Cavina cominciò ad intascare
le pagnottelle e arriva a dieci, ma la tasca non è piena; ne mette altre
cinque, ma ancora ce me stanno; altre cinque ancora e rimane
spazio; si son fatte venticinque e ce
ne vanno ancora, e il povero amico
così ingannato, mette fine all'operazione-pane con una frase spiritosa:
- D. Cavina, la prego, le restituisco le due lire, e arrivederci!
V. - Anche le galline conoscevano la carità di D. Cavina. Per chi entrava in iscuola a S. Domenico
rimase proverbiale « la gallina
zoppa » di D. Cavina. Quando
egli spuntava dalla Via Clarentano
circondato da una turba di ragazzi
che lo seguivano vociando, si faceva avanti, incurante del chiasso, una gallina
zoppa che gli andava vicino e passo passo
lo seguiva fin dentro il cortile, finchè D. Cavina si fermava,
la carezzava e le dava a beccare le numerose briciole di cui erano
piene le sue tasche.
VI. - Mille erano le industrie per procurarsi il
necessario da distribuire ai suoi poveri.
Andava a trovare le famiglie amiche e invece di mangiare i biscotti offertigli, li riponeva in tasca per i suoi poveri; alla fine del pranzo girava per il refettorio dei collegiali e raccoglieva abbondantemente tutto ciò che avanzava e quindi
barcollando con quei due sacchi ripieni, partiva per il
giro pomeridiano dei suoi poveri: frutta, pane, carne, formaggio e qualche volta anche intere bottiglie
di vino che davano un momento di gioia a chi mancava del
necessario o caffettiere di latte per
i poveri ammalati.
VII. - Un giorno
incontra un amico carissimo, potremmo farne il nome; lo ferma, discorre
con lui e quello accende una sigaretta.
- Oh, don Ciccio, non mi offri
nemmanco una sigaretta? - gli dice D. Cavina.
Quello prontamente gli offre il
pacchetto perché si serva. Egli
lo piglia, lo intasca tutto intero e quindi gli dice:
- Questo in
conto di quante me ne avete avresti dovuto dare da tanto tempo. Ma ci
conosciamo da tanti anni e un pacchetto è ben piccola cosa
in rispetto a quante avresti dovuto offrirmene.
L'altro capisce. Mette fuori il
portafoglio e gli offre dieci lire e allora il sorriso compiaciuto di D.
Cavina gli dice che era proprio quello che
egli si attendeva con la sua richiesta.
VIII. - La sua vita era l'Oratorio, le
Associazioni, la A. C., il Teatro.
Il periodo turbolento del 1930-31 portò all'attrito tra la Chiesa e lo
Stato.
Le orde dei giovinastri fascisti
assaltarono le sedi dell'A.C. Anche quella dell'Oratorio
fu oggetto di persecuzione e fu uno spettacolo insolito ed impressionante quando
i giovani oratoriani furono assaliti a
randellate da un'orda di scalmanati.
D. Cavina si ricordò di essere stato militare, afferrò uno degli
assalitori, gli strappò il bastone e messosi in mezzo ai suoi giovani, intimidì talmente gli avversari che batterono prontamente
in ritirata.
IX. - Bravissimo attore e regista di teatro, l'arma educativa di D. Bosco, passava il tempo libero della sera a curare la filodrammatica dell'Oratorio e riuscì a formare una scuola di bravi attori ancora
ricordati. .
Fu in ottobre che si era preparata
l'operetta in musica di D. Cimatti, « Raggio di Sole »
e la sera della recita, l'attore principale si ammalò improvvisamente. Come
sostituirlo? D. Cavina avrebbe potuto, se avesse avuta
una buona voce, ma egli era notoriamente sfornito di tale
dono di natura. E allora? ...Si esibisce ugualmente e mentre egli magistralmente, recita sulla scena, un altro dietro le quinte
canta per lui accompagnando con una
mimica tanto perfetta il canto che nessuno si accorge del trucco e tutti si
meravigliano della non conosciuta
dote di D. Cavina.
X. - Gli amici, tutto erano per lui come lui era tutto per gli amici.
Ho qui la testimonianza di un antico allievo che
trovatosi improvvisamente in serie difficoltà economiche fu aiutato da D. Cavina in ogni
maniera, anche con una somma allora esorbitante (lire mille) che gli fu
restituita solo dopo tanto tempo; in seguito si seppe che quella somma
egli i aveva ottenuta in prestito.
XI. - Un ex-allievo scrive:
L'ultimo mio incontro con D. Cavina l'ho avuto per un anno intero
a S. Agata di Militello, dove non ero più il
ragazzetto di Randazzo ma un insegnante: D. Cavina mi era sempre vicino con il suo affetto, con i suoi
consigli, e in certe circostanze con
una più che paterna autorità. Si era
nel periodo dell'invasione e D. Cavina soffriva perché non poteva esternare il suo amore per i poveri con
quella effusione con cui lo aveva fatto a Randazzo. Tutto era razionato ma la sua razione andava a finire a qualche
povero che nel suo breve soggiorno di S. Agata gli era divenuto amico. Ma anche a S. Agata il suo cuore era sempre
rivolto a Randazzo. Voglio ricordare
l'amore suo anche per gli animali. Sono
stato testimone oculare: nella sua cameretta venivano continuamente a fargli visita una lucertolina e
un passerotto cui dava delle briciole
di pane o faceva trovare una scatoletta con dell'acqua. Il passerotto entrava
persino dentro, lui presente, e si posava sul tavolo dove riceveva dalle sue mani le imbeccate.
XII.
- Don Cavina che era dotato di un
cuore sacerdotale delicatamente sensibile, avendo compreso
la profondità del solco che la morte aveva
scavato nell'animo di una signora per l'immatura scomparsa
di un caro parente, sacerdote
salesiano, spesso la visitava. Quando poi detta signora ebbe offerto alla Famiglia Salesiana il figlio, « il suo tesoro »,
come lo chiamava, D. Cavina, grato di questa generosa
donazione, continuò la sua mansione di visitatore in quella
casa, rimasta quasi vuota. E fu per questo che un giorno a lui toccò trangugiare un bicchiere di fortissimo aceto, più adatto per l'insalata. La
signora infatti aveva sturato una
bottiglia di « vermouth » che campeggiava nella credenza in mezzo alle altre stoviglie.
- La prego, D. Cavina, è opera mia. E' genuino... ben riposato... mi accontenti; ne gusti un altro bicchierino!
- Oh no, Signora! - soggiunse sorridendo il buon salesiano - ne resterà di più per un'altra visita che non sarà
lontana!
Così dicendo si accomiatò.
Impressionata dall'insolita
premura di D. Cavina, la signora, rimasta sola, volle assaggiare il « vermouth ».
Q confusione... Come poteva dire, mentre lo
sorseggiava, che era ottimo? Come poteva lodare la sua abilità? Ed ora come riparare? Andare al Collegio per chiedergli scusa? Quasi telepaticamente il penare della signora fu
compreso da D. Cavina e dal suo
immediato ritorno scaturì una schietta
risata fra entrambi e questo restò impresso nella memoria dei nipoti.
XIII. - Nel 1934, la prima domenica di giugno - scrive un altro ex-allievo - in cui si festeggia Maria SS. Annunziata, ho visto D. Cavina in mezzo alla folla che assiepava le bancarelle del mercato, con un ragazzino sui dieci anni. Questo era poveramente vestito, con i piedi del tutto nudi. Lo seguii con lo sguardo da lontano ed ecco D. Cavina che si avvicina al negoziante di scarpe, sceglie un paio di scarpette,
contratta e le acquista per il bambino che felice le calza subito.
L'anno seguente, 1935 - non ricordo il giorno - ero vicino a casa mia, in via S. Giacomo, dove abito
fin dal 1925, quando sento un
vociare confuso che attrae la mia attenzione. Erano molti miei vicini e vicine a gruppo che con meraviglia e ammirazione sussurravano:
- « E' andato scalzo al Collegio! Ha dato le scarpe sue ad un poverello! E' D. Cavina! ».
XIV. - D. Cavina nel 1938 partì da
Randazzo e per un periodo di riposo fu trasferito a Taormina.
Anche lì continuò la sua missione di carità e non
vi fu alcuno del personale degli alberghi che non lo
conoscesse e gli venisse in aiuto per aiutare i numerosi
poveri che già nel giro di pochi mesi aveva
conosciuti.
Anche a Taormina amava le passeggiate solitarie. Un
giorno si dirigeva lentamente per il sentiero che dalla cittadina conduce alla chiesa di S. Maria della Rocca, sotto il castello. La stradetta, tutta in salita, è
solitaria, solo l'azzurro del cielo e il cinguettio
degli uccelli accompagnavano l'animo semplice di D. Cavina. Ma ecco ad una
svolta un povero uomo, distrutto dagli anni e dagli stenti, che va su, appoggiandosi ad un bastone,
carico di una fascina di legna da ardere. E' vecchio e
deperito. Il suo passo è tanto lento che
sembra quasi che non si muova, anzi ad un certo punto vacilla e cade. D. Cavina gli è vicino, lo solleva, gli dice
una buona parola, mette fuori dalle sue tasche qualche cosa che l'altro afferra con gioia e quindi, presa
la fascina sopra le sue spalle lo
accompagna fino al santuario della Madonna della Rocca.
Molti altri fatti si potrebbero raccontare qui
per far conoscere lo spirito di generosa
carità che animò tutta la vita di questo degnissimo figlio
di Don Bosco.
Tutti i-randazzesi che lo conobbero nei lunghi
anni che lui, toscano di nascita, trascorse a Randazzo, ne parlano ancora sempre con ammirazione e con tanto
affetto.
Che il suo ricordo desti nel cuore dei
randazzesi, da Lui prediletti, sentimenti di carità
e di bontà verso i poveri e i
bisognosi.
XV. - Omaggio di una ammiratrice:
DON CAVINA RITORNA
Finalmente ritorni fra noi
di D. Bosco figliolo diletto,
e Randazzo
con memore affetto ti riceve con gioia ed amor!
Don Cavina
Don Francesco Cavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Quando scalzo al Collegio
tornasti in un giorno di crudo rigore ché
le scarpe ad un egro donasti su nel ciel
sorrideva Gesù.
Don Cavina
Don Francesco Gavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Per le
lacrime che tu asciugasti per il bene che a molti facesti per l'amore che a tutti portasti grande
premio ricevi lassù.
Don Cavina
Don Francesco Cavina
per noi prega il Signore lassù! (2 volte)
Fiordispino
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