Nel mese di febbraio dell'anno 1968 a Palermo il cardinale Ruffini dichiarava aperto il
processo diocesano di beatificazione del barone Antonino Petyx, uno di
quegli apostoli laici che maggiormente onorarono la Chiesa tra l'ultimo
scorcio dell'Ottocento e la prima metà del nostro secolo. Ne presentiamo
la figura ai nostri lettori perchè il barone Petyx fu uno dei primi e più
affezionati nostri exallievi della Sicilia, e fu dal 1922 al 1924 il
primo presidente dell'Unione di Palermo.
In un sottoscala di una zona popolare di Palermo viveva una vecchietta
sussidiata dalla Conferenza di San Vincenzo. Essa pagava il fitto col
lavaggio settimanale delle scale. Un giorno la poveretta si ammala e non
può più prestare il suo servizio. Ne consegue lo sfratto dal sottoscala.
Due confratelli della San Vincenzo le fanno la consueta visita
settimanale e la trovano in lacrime. Dove andrà ora? Si cerca di
commuovere il padrone di casa. Inutilmente. Allora uno dei due viene a
trattative: se la San Vincenzo assume l'incarico di lavare le scale,
permetterà il padrone che la vecchietta continui a usufruire di quella
poverissima dimora? Il patto è accettato. Durante la settimana il
generoso confratello cerca un'altra donna, ma non la trova. Allora di
buon mattino si reca sul posto, si mette in abiti da lavoro ed eseguisce
il lavaggio delle scale.
Quel giovane confratello era il barone Antonino Petyx, un eminente
personaggio del laicato cattolico, il «padre dei poveri» di Palermo.
Era nato a Casteltermini (Agrigento) dai nobili coniugi Luigi e Marianna
Petyx, che accolsero come dono del cielo i dieci figli venuti ad
allietare il loro focolare. Antonino era il secondogenito. « Per i primi
suoi studi - si legge nella vita che ne scrisse il P. Giuseppe Abate
O.F.M. Conv. - e per una educazione cristiana più compiuta il piccolo
Antonino venne affidato ai Padri Salesiani del noto Collegio di Randazzo
(Catania). In esso l'innocente fanciullo si fece subito notare per le sue
non comuni doti di bontà, di pietà e di diligenza. Dell'educazione ivi
ricevuta il Petyx farà poi più volte onorevole menzione, unendo al
ricordo la più sincera riconoscenza ».
Il collegio di Randazzo, un antico monastero dei Basiliani, ha il vanto
di aver aperto le porte della Sicilia a Don Bosco. Fu infatti la prima
casa fondata dal Santo nell'Isola. Antonino vi entrò quattro anni dopo
(1883). Vi si respirava un'incantevole aria di famiglia. I parenti erano
soddisfattissimi dei loro figliuoli, che trovavano sempre allegri e senza
rimpianti per la famiglia lontana.
Antonino, formato dai genitori a un forte senso cristiano della vita, vi
trovò il clima ideale per completarvi la sua formazione. Vi avrebbe
frequentato anche le scuole ginnasiali se la famiglia non si fosse
trasferita a Palermo. Rimase poi sempre affezionatissimo ai salesiani e a
Don Bosco e, nonostante i molti suoi incarichi, per qualche anno tenne la
presidenza degli Exallievi di via Sampolo. Dopo la morte, tra le sue
carte furono trovate le raccolte del Bollettino Salesiano e di Voci
Fraterne. Sull'agendina intima, nella lista dei defunti più cari da
ricordare nell'anniversario, si legge: « 28 febbraio: card. Cagliero - 29
ottobre : Don Paolo Albera - 5 dicembre : Don Rinaldi ».
SERVO DEI POVERI
Fervente Terziario Francescano, il barone Petyx amò ardentemente la
povertà e volle essere il servo dei poveri. Nel 1904 fondò per loro la
prima Conferenza di San Vinvenzo in Palermo, e lo fece . con tanta umiltà
da attribuirne il merito principale al conte austriaco Giuseppe De Thun,
che si trovava a Palermo` per ritemprarsi in salute e che gli fu largo di
consigli. Ne seguirono subito altre, sempre organizzate da lui, e già nel
1905 veniva costituito in città il Consiglio delle Conferenze, del quale
fu offerta la presidenza al barone. Egli declinò l'onore, accettando però
di esercitarne le funzioni col titolo di vicepresidente.
Nell'assistere i poveri era il primo, il più generoso, il più umile,
perchè in essi sapeva che visitava Gesù. Ne era così convinto che quanto
più erano bisognosi e abbandonati, tanto maggiori erano le sollecitudini
e le cure che aveva per essi. « I confratelli della San Vincenzo - diceva
- non sono dei fattorini di buoni alimentari, ma degli inviati di Dio per
portare Dio, il suo sorriso, la sua provvidenza ai poveri, ai malati, ai
derelitti ».
La sua carità toccò l'eroico dopo la spaventosa catastrofe del terremoto
di Messina del 19o8, quando si riversarono in Palermo 1z.ooo profughi
privi di tutto e con lo strazio nel cuore. Essi lo videro aggirarsi in
mezzo a loro giorno e notte fino alla loro definitiva sistemazione.
Oltre le Conferenze che per oltre un trentennio tennero gioiosamente
impegnato il Petyx, c'erano parecchie altre opere, fondate da lui o da
lui ardentemente promosse. C'era il Segretariato dei poveri, dove
giornalmente i bisognosi avevano udienza, consigli e aiuti per il
disbrigo delle più intricate questioni ; il Guardaroba dei poveri, per il
fabbisogno dei suoi assistiti; la Visita agli Ospedali e alle Carceri ;
la Biblioteca educativa, circolante tra le famiglie assistite dalle varie
Conferenze per porre un argine al dilagare delle letture immorali in
mezzo al popolo; il Patronato per i Giovani Operai, con scuole serali,
oratorio festivo, circolo operaio, ginnastica, musica, biblioteca;
l'annuale Lotteria per i poveri ecc.
La carità del barone Petyx era tale da impressionare anche quelli
dell'altra sponda. L'uomo di Dio aveva solo 30 anni quando il giornale
laicista e liberale La Patria gli dedicava un articolo nel quale il
giornalista esclamava con enfasi « Oh, sì, esiste ancora un uomo che,
refrattario della réclame, corre ove una esistenza è in periglio, ove
l'opera sua soccorritrice è necessaria, ove è da compiere un beneficio,
un salvataggio, una nobile azione. Esiste, sì, e risponde al nome del
barone Petyx.
Egli, incurante di ore e di sacrifici, trascurando gli affari e la
famiglia, è sempre pronto al capezzale di un morente ; è sempre a tempo
per salvare l'onore di una fanciulla; per soccorrere una madre derelitta
cui i bimbi chiedono indarno del pane; per aprire le braccia a un
disgraziato preparato al suicidio.
Lungi da noi l'esagerazione e molto più l'adulazione - chè temeremmo
offendere la modestia meticolosa del gentiluomo - senza di che diremo che
al culto della carità egli fa olocausto delle ore dedicate al sonno e al
pranzo, dei godimenti mondani, che egli abborre, lieto invece di passarle
nell'esercizio della carità.
E diremo che al lusso e alle sale dorate delle principesche magioni egli
preferisce la miseria e il tugurio del sofferente, a cui, con la
famiglia, divide il patrimonio avito ».
«SACERDOTE IN GIACCHETTA»
Antonino Petyx ha scritto una frase da... Vaticano II: « Essere cristiani
ed essere per di più soldati di Cristo impone l'obbligo a ciascuno di
essere un coefficiente di azione (= apostolo) in seno non solo alla
grande famiglia cattolica, ma anche in seno a tutta la famiglia umana,
redenta tutta dal preziosissimo Sangue di Cristo ».
Ed egli precedeva con l'esempio. Oltre l'apostolato sociale della carità,
militò costantemente nelle file dell'Azione Cattolica. In essa volle
restare sempre semplice milite, ma vi portò tutto il fuoco del suo
entusiasmo, tanto da essere considerato il membro più attivo dell'A. C.
cittadina. Il nome di questo «sacerdote in giacchetta» come fu definito,
è rimasto unito a quello di altri apostoli di punta che a Palermo - come
don Sturzo a Catania - organizzarono e onorarono l'Azione Cattolica in
anni in cui le condizioni della Chiesa in Italia erano particolarmente
delicate.
Come Don Bosco, il barone Petyx, tenacemente impegnato nel diffondere e
difendere il regno di Dio nelle anime, non poteva trascurare uno dei
mezzi più potenti: la stampa. A quei tempi non erano molti quelli che
presentivano l'importanza di quelli che sono oggi i mezzi di
comunicazione sociale. Il Petyx con uno zelo illuminato e antiveggente
fece della stampa una branca attivissima del suo apostolato.
Promosse la stampa cattolica come giornalista e come finanziatore e
confondatore. Scrisse vari articoli di carattere prevalentemente
religioso e caritativo. Ma non li firmava, desideroso unicamente di
curare gl'interessi di Dio nelle anime. Come finanziatore e confondatore
ebbe amarezze a non finire. Il contributo da lui dato al giornalismo
cattolico, specialmente nella fondazione del Corriere di Sicilia, gli
costò innumerevoli fatiche, incomprensioni, accuse e perfino la perdita
di molta parte del suo vasto patrimonio. Il Petyx perdonò e rinunziò a
tutto, insegnando che si può vivere felici e divenire santi anche in
mezzo alle ingiustizie umane, quando si è pieni di amor di Dio e si è ben
fondati nella fede e radicati nella carità.
LA FAMIGLIA PETYX: UN SANTUARIO
Se si pensa che ebbe ben nove figli, vien spontaneo chiedersi: pensava
che il primo dovere di un papà è quello dell'apostolato familiare? Ci
pensava tanto che il Padre Timpanaro, suo direttore spirituale, ha potuto
scrivere: « La sua casa era una scuola ov'egli era il maestro. La
preghiera in comune, la spiegazione del Vangelo, la lettura di libri
spirituali, tutto egli praticava per istillare nei figli i princìpi santi
di Gesù ». Ecco una sua profonda aspirazione: « Possa il mio cuore gioire
nel vedere tutti i miei figli ripieni dell'amore di Gesù ».
Alla educazione cristiana che i genitori impartivano nel santuario
domestico volle aggiunta quella che veniva data più ampiamente in
istituti retti da Religiosi, e precisamente dai Gesuiti, dai Barnabiti,
dai Salesiani e dalle Dame del Sacro Cuore.
L'amicizia profonda che sapeva coltivare con i figli non gli impediva di
essere rispettoso della loro libertà, soprattutto circa la vocazione, e
ciò anche quando i suoi disegni non erano conformi a quelli dei figli.
Carezzò a lungo il desiderio di avere un figlio sacerdote, ma non fece
mai la minima pressione su alcuno di essi. Il Signore gli diede la gioia
di due figlie religiose, un'Ancella del Sacro Cuore e una Carmelitana
Scalza. Quanto abbia goduto per queste due vocazioni lo dice questa sua
nota di diario scritta il giorno della vestizione della prima: « La mia
figliuoletta è felice in Gesù, e io partecipo della sua felicità... Gesù
sorride a lei, e un riverbero di questo sorriso si posa sulla mia
famigliuola e riscalderà i cuori delle sorelle e dei fratelli della
piccola Ancella che con le sue preghiere otterrà grazie celesti e
benedizioni su di essi ».
Eppure era stato così rispettoso della libertà di questa sua figlia, che
il giorno in cui l'aveva accompagnata al noviziato di Monte Mario a Roma,
giunti al portone, aveva detto: « Suona tu! ». Aveva voluto lasciare a
lei tutta la responsabilità di quel passo.
«IDDIO CI VUOLE SANTI»
Tutta questa mirabile attività di apostolo e di padre cristiano non
sarebbe stata possibile se il barone Petyx non avesse saputo darle
un'anima, coltivando un'intensa vita interiore. La spiritualità di questo
grande exallievo di Don Bosco ha molti tratti comuni con quella del
Padre: è una spiritualità eucaristica, mariana, sorretta da una continua
unione con Dio in mezzo al turbinio dell'attività esteriore. Il Petyx
negli anni passati a Randazzo con quei primi grandi salesiani, aveva
imparato che l'Eucaristia e Maria sono le due ali che sollevano alle
vette della santità. E la santità fu la sua aspirazione continua e
suprema: aveva incominciato ad amarla come il suo più caro ideale negli
anni passati nel collegio, dove aveva esercitato il suo apostolato quel
grande innamorato della santità di Domenico Savio che fu don Stefano
Trione, banditore eloquente delle ardenti aspirazioni del Savio: « Io
voglio assolutamente e ho assolutamente bisogno di farmi santo, e sento
che se non mi fo santo, io non fo niente. Iddio mi vuole santo e io debbo
farmi tale ».
Quasi riecheggiando le parole del Ragazzo santo, ancora due mesi prima di
morire il barone Petyx scriveva a una figlia: « Il Signore ci vuole
santi, e noi non dobbiamo volere altro che farci santi, volerlo,
fortemente _volerlo, incessantemente volerlo... ». E quasi non
soddisfatto, aggiungeva questo : «PS. Dobbiamo farci santi! Dio lo vuole
! Conducendo con noi anche i nostri cari e gli altri».
NON VOLLE RECITARE IL «REQUIEM»
Il 16 ottobre del 1935, a 61 anni, fu colpito da una malattia grave e
dolorosissima. Non sopravvisse che due giorni edificando con la sua
serena e piena conformità alla volontà di Dio. Soffriva moltissimo. A chi
lo compiangeva indicava il cielo esclamando: « Tutto per Lui ! ». Ai
figli piangenti attorno al suo letto raccomandò : « Vivete in pace...
vivete uniti... Ogni giorno alla S. Messa e alla S. Comunione ». Volle
che il Viatico gli fosse portato pubblicamente e che a riceverlo ci
fossero tutti i parenti a far corona a Gesù in quella stanza che si
degnava onorare con la sua presenza divina. Dispose che i suoi funerali
si effettuassero con la « carrozza della carità », cioè col carro usato
per i poveri. Attorno alla sua salma si raccolse tutto un popolo che
ripeteva convinto: « È morto il padre dei poveri, l'apostolo della carità
». Destava lieta sorpresa entrare nella camera ardente, drappeggiata di
bianco e di oro senza alcun segno di lutto. Alla tumulazione il vescovo
mons. Genuardi, suo intimo amico, non volle recitare il Requiem.
Il barone Antonino Petyx aveva scritto: « Tutto finisce quaggiù con la
morte; solo sopravvivono con noi le buone opere, fatte per ispirazione
della carità ».
Era un commento vissuto alle note parole di Don Bosco: « In fin di vita
si raccoglie il frutto delle opere buone ».
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