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venerdì 23 ottobre 2015

UN EX-ALLIEVO DEL SAN BASILIO.



Nel mese di febbraio dell'anno 1968 a Palermo il cardinale Ruffini dichiarava aperto il processo diocesano di beatificazione del barone Antonino Petyx, uno di quegli apostoli laici che maggiormente onorarono la Chiesa tra l'ultimo scorcio dell'Ottocento e la prima metà del nostro secolo. Ne presentiamo la figura ai nostri lettori perchè il barone Petyx fu uno dei primi e più affezionati nostri exallievi della Sicilia, e fu dal 1922 al 1924 il primo presidente dell'Unione di Palermo.
In un sottoscala di una zona popolare di Palermo viveva una vecchietta sussidiata dalla Conferenza di San Vincenzo. Essa pagava il fitto col lavaggio settimanale delle scale. Un giorno la poveretta si ammala e non può più prestare il suo servizio. Ne consegue lo sfratto dal sottoscala. Due confratelli della San Vincenzo le fanno la consueta visita settimanale e la trovano in lacrime. Dove andrà ora? Si cerca di commuovere il padrone di casa. Inutilmente. Allora uno dei due viene a trattative: se la San Vincenzo assume l'incarico di lavare le scale, permetterà il padrone che la vecchietta continui a usufruire di quella poverissima dimora? Il patto è accettato. Durante la settimana il generoso confratello cerca un'altra donna, ma non la trova. Allora di buon mattino si reca sul posto, si mette in abiti da lavoro ed eseguisce il lavaggio delle scale.
Quel giovane confratello era il barone Antonino Petyx, un eminente personaggio del laicato cattolico, il «padre dei poveri» di Palermo.
Era nato a Casteltermini (Agrigento) dai nobili coniugi Luigi e Marianna Petyx, che accolsero come dono del cielo i dieci figli venuti ad allietare il loro focolare. Antonino era il secondogenito. « Per i primi suoi studi - si legge nella vita che ne scrisse il P. Giuseppe Abate O.F.M. Conv. - e per una educazione cristiana più compiuta il piccolo Antonino venne affidato ai Padri Salesiani del noto Collegio di Randazzo (Catania). In esso l'innocente fanciullo si fece subito notare per le sue non comuni doti di bontà, di pietà e di diligenza. Dell'educazione ivi ricevuta il Petyx farà poi più volte onorevole menzione, unendo al ricordo la più sincera riconoscenza ».
Il collegio di Randazzo, un antico monastero dei Basiliani, ha il vanto di aver aperto le porte della Sicilia a Don Bosco. Fu infatti la prima casa fondata dal Santo nell'Isola. Antonino vi entrò quattro anni dopo (1883). Vi si respirava un'incantevole aria di famiglia. I parenti erano soddisfattissimi dei loro figliuoli, che trovavano sempre allegri e senza rimpianti per la famiglia lontana.
Antonino, formato dai genitori a un forte senso cristiano della vita, vi trovò il clima ideale per completarvi la sua formazione. Vi avrebbe frequentato anche le scuole ginnasiali se la famiglia non si fosse trasferita a Palermo. Rimase poi sempre affezionatissimo ai salesiani e a Don Bosco e, nonostante i molti suoi incarichi, per qualche anno tenne la presidenza degli Exallievi di via Sampolo. Dopo la morte, tra le sue carte furono trovate le raccolte del Bollettino Salesiano e di Voci Fraterne. Sull'agendina intima, nella lista dei defunti più cari da ricordare nell'anniversario, si legge: « 28 febbraio: card. Cagliero - 29 ottobre : Don Paolo Albera - 5 dicembre : Don Rinaldi ».
SERVO DEI POVERI
Fervente Terziario Francescano, il barone Petyx amò ardentemente la povertà e volle essere il servo dei poveri. Nel 1904 fondò per loro la prima Conferenza di San Vinvenzo in Palermo, e lo fece . con tanta umiltà da attribuirne il merito principale al conte austriaco Giuseppe De Thun, che si trovava a Palermo` per ritemprarsi in salute e che gli fu largo di consigli. Ne seguirono subito altre, sempre organizzate da lui, e già nel 1905 veniva costituito in città il Consiglio delle Conferenze, del quale fu offerta la presidenza al barone. Egli declinò l'onore, accettando però di esercitarne le funzioni col titolo di vicepresidente.
Nell'assistere i poveri era il primo, il più generoso, il più umile, perchè in essi sapeva che visitava Gesù. Ne era così convinto che quanto più erano bisognosi e abbandonati, tanto maggiori erano le sollecitudini e le cure che aveva per essi. « I confratelli della San Vincenzo - diceva - non sono dei fattorini di buoni alimentari, ma degli inviati di Dio per portare Dio, il suo sorriso, la sua provvidenza ai poveri, ai malati, ai derelitti ».
La sua carità toccò l'eroico dopo la spaventosa catastrofe del terremoto di Messina del 19o8, quando si riversarono in Palermo 1z.ooo profughi privi di tutto e con lo strazio nel cuore. Essi lo videro aggirarsi in mezzo a loro giorno e notte fino alla loro definitiva sistemazione.
Oltre le Conferenze che per oltre un trentennio tennero gioiosamente impegnato il Petyx, c'erano parecchie altre opere, fondate da lui o da lui ardentemente promosse. C'era il Segretariato dei poveri, dove giornalmente i bisognosi avevano udienza, consigli e aiuti per il disbrigo delle più intricate questioni ; il Guardaroba dei poveri, per il fabbisogno dei suoi assistiti; la Visita agli Ospedali e alle Carceri ; la Biblioteca educativa, circolante tra le famiglie assistite dalle varie Conferenze per porre un argine al dilagare delle letture immorali in mezzo al popolo; il Patronato per i Giovani Operai, con scuole serali, oratorio festivo, circolo operaio, ginnastica, musica, biblioteca; l'annuale Lotteria per i poveri ecc.
La carità del barone Petyx era tale da impressionare anche quelli dell'altra sponda. L'uomo di Dio aveva solo 30 anni quando il giornale laicista e liberale La Patria gli dedicava un articolo nel quale il giornalista esclamava con enfasi « Oh, sì, esiste ancora un uomo che, refrattario della réclame, corre ove una esistenza è in periglio, ove l'opera sua soccorritrice è necessaria, ove è da compiere un beneficio, un salvataggio, una nobile azione. Esiste, sì, e risponde al nome del barone Petyx.
Egli, incurante di ore e di sacrifici, trascurando gli affari e la famiglia, è sempre pronto al capezzale di un morente ; è sempre a tempo per salvare l'onore di una fanciulla; per soccorrere una madre derelitta cui i bimbi chiedono indarno del pane; per aprire le braccia a un disgraziato preparato al suicidio.
Lungi da noi l'esagerazione e molto più l'adulazione - chè temeremmo offendere la modestia meticolosa del gentiluomo - senza di che diremo che al culto della carità egli fa olocausto delle ore dedicate al sonno e al pranzo, dei godimenti mondani, che egli abborre, lieto invece di passarle nell'esercizio della carità.
E diremo che al lusso e alle sale dorate delle principesche magioni egli preferisce la miseria e il tugurio del sofferente, a cui, con la famiglia, divide il patrimonio avito ».
«SACERDOTE IN GIACCHETTA»
Antonino Petyx ha scritto una frase da... Vaticano II: « Essere cristiani ed essere per di più soldati di Cristo impone l'obbligo a ciascuno di essere un coefficiente di azione (= apostolo) in seno non solo alla grande famiglia cattolica, ma anche in seno a tutta la famiglia umana, redenta tutta dal preziosissimo Sangue di Cristo ».
Ed egli precedeva con l'esempio. Oltre l'apostolato sociale della carità, militò costantemente nelle file dell'Azione Cattolica. In essa volle restare sempre semplice milite, ma vi portò tutto il fuoco del suo entusiasmo, tanto da essere considerato il membro più attivo dell'A. C. cittadina. Il nome di questo «sacerdote in giacchetta» come fu definito, è rimasto unito a quello di altri apostoli di punta che a Palermo - come don Sturzo a Catania - organizzarono e onorarono l'Azione Cattolica in anni in cui le condizioni della Chiesa in Italia erano particolarmente delicate.
Come Don Bosco, il barone Petyx, tenacemente impegnato nel diffondere e difendere il regno di Dio nelle anime, non poteva trascurare uno dei mezzi più potenti: la stampa. A quei tempi non erano molti quelli che presentivano l'importanza di quelli che sono oggi i mezzi di comunicazione sociale. Il Petyx con uno zelo illuminato e antiveggente fece della stampa una branca attivissima del suo apostolato.
Promosse la stampa cattolica come giornalista e come finanziatore e confondatore. Scrisse vari articoli di carattere prevalentemente religioso e caritativo. Ma non li firmava, desideroso unicamente di curare gl'interessi di Dio nelle anime. Come finanziatore e confondatore ebbe amarezze a non finire. Il contributo da lui dato al giornalismo cattolico, specialmente nella fondazione del Corriere di Sicilia, gli costò innumerevoli fatiche, incomprensioni, accuse e perfino la perdita di molta parte del suo vasto patrimonio. Il Petyx perdonò e rinunziò a tutto, insegnando che si può vivere felici e divenire santi anche in mezzo alle ingiustizie umane, quando si è pieni di amor di Dio e si è ben fondati nella fede e radicati nella carità.
LA FAMIGLIA PETYX: UN SANTUARIO
Se si pensa che ebbe ben nove figli, vien spontaneo chiedersi: pensava che il primo dovere di un papà è quello dell'apostolato familiare? Ci pensava tanto che il Padre Timpanaro, suo direttore spirituale, ha potuto scrivere: « La sua casa era una scuola ov'egli era il maestro. La preghiera in comune, la spiegazione del Vangelo, la lettura di libri spirituali, tutto egli praticava per istillare nei figli i princìpi santi di Gesù ». Ecco una sua profonda aspirazione: « Possa il mio cuore gioire nel vedere tutti i miei figli ripieni dell'amore di Gesù ».
Alla educazione cristiana che i genitori impartivano nel santuario domestico volle aggiunta quella che veniva data più ampiamente in istituti retti da Religiosi, e precisamente dai Gesuiti, dai Barnabiti, dai Salesiani e dalle Dame del Sacro Cuore.
L'amicizia profonda che sapeva coltivare con i figli non gli impediva di essere rispettoso della loro libertà, soprattutto circa la vocazione, e ciò anche quando i suoi disegni non erano conformi a quelli dei figli. Carezzò a lungo il desiderio di avere un figlio sacerdote, ma non fece mai la minima pressione su alcuno di essi. Il Signore gli diede la gioia di due figlie religiose, un'Ancella del Sacro Cuore e una Carmelitana Scalza. Quanto abbia goduto per queste due vocazioni lo dice questa sua nota di diario scritta il giorno della vestizione della prima: « La mia figliuoletta è felice in Gesù, e io partecipo della sua felicità... Gesù sorride a lei, e un riverbero di questo sorriso si posa sulla mia famigliuola e riscalderà i cuori delle sorelle e dei fratelli della piccola Ancella che con le sue preghiere otterrà grazie celesti e benedizioni su di essi ».
Eppure era stato così rispettoso della libertà di questa sua figlia, che il giorno in cui l'aveva accompagnata al noviziato di Monte Mario a Roma, giunti al portone, aveva detto: « Suona tu! ». Aveva voluto lasciare a lei tutta la responsabilità di quel passo.
«IDDIO CI VUOLE SANTI»
Tutta questa mirabile attività di apostolo e di padre cristiano non sarebbe stata possibile se il barone Petyx non avesse saputo darle un'anima, coltivando un'intensa vita interiore. La spiritualità di questo grande exallievo di Don Bosco ha molti tratti comuni con quella del Padre: è una spiritualità eucaristica, mariana, sorretta da una continua unione con Dio in mezzo al turbinio dell'attività esteriore. Il Petyx negli anni passati a Randazzo con quei primi grandi salesiani, aveva imparato che l'Eucaristia e Maria sono le due ali che sollevano alle vette della santità. E la santità fu la sua aspirazione continua e suprema: aveva incominciato ad amarla come il suo più caro ideale negli anni passati nel collegio, dove aveva esercitato il suo apostolato quel grande innamorato della santità di Domenico Savio che fu don Stefano Trione, banditore eloquente delle ardenti aspirazioni del Savio: « Io voglio assolutamente e ho assolutamente bisogno di farmi santo, e sento che se non mi fo santo, io non fo niente. Iddio mi vuole santo e io debbo farmi tale ».
Quasi riecheggiando le parole del Ragazzo santo, ancora due mesi prima di morire il barone Petyx scriveva a una figlia: « Il Signore ci vuole santi, e noi non dobbiamo volere altro che farci santi, volerlo, fortemente _volerlo, incessantemente volerlo... ». E quasi non soddisfatto, aggiungeva questo : «PS. Dobbiamo farci santi! Dio lo vuole ! Conducendo con noi anche i nostri cari e gli altri».
NON VOLLE RECITARE IL «REQUIEM»
Il 16 ottobre del 1935, a 61 anni, fu colpito da una malattia grave e dolorosissima. Non sopravvisse che due giorni edificando con la sua serena e piena conformità alla volontà di Dio. Soffriva moltissimo. A chi lo compiangeva indicava il cielo esclamando: « Tutto per Lui ! ». Ai figli piangenti attorno al suo letto raccomandò : « Vivete in pace... vivete uniti... Ogni giorno alla S. Messa e alla S. Comunione ». Volle che il Viatico gli fosse portato pubblicamente e che a riceverlo ci fossero tutti i parenti a far corona a Gesù in quella stanza che si degnava onorare con la sua presenza divina. Dispose che i suoi funerali si effettuassero con la « carrozza della carità », cioè col carro usato per i poveri. Attorno alla sua salma si raccolse tutto un popolo che ripeteva convinto: « È morto il padre dei poveri, l'apostolo della carità ». Destava lieta sorpresa entrare nella camera ardente, drappeggiata di bianco e di oro senza alcun segno di lutto. Alla tumulazione il vescovo mons. Genuardi, suo intimo amico, non volle recitare il Requiem.
Il barone Antonino Petyx aveva scritto: « Tutto finisce quaggiù con la morte; solo sopravvivono con noi le buone opere, fatte per ispirazione della carità ».
Era un commento vissuto alle note parole di Don Bosco: « In fin di vita si raccoglie il frutto delle opere  buone ».

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