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giovedì 26 novembre 2015

AVVISO.




Si ricorda che domani venerdì 20 novembre 2015, alle ore 17,00  verrà celebrata da don Biagio Tringali, la consueta Santa Messa settimanale, presso la chiesa del collegio San Basilio.

sabato 14 novembre 2015

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (15 novembre 2015)

Mc 13, 24-32
24In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,
25le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
26Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
28Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. 29Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
30In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. 31Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
32Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.
 
Commento a cura di Daniela De Simeis

Prima Lettura – Dn 12,1-3
Salmo ResponsorialeSal 15
Seconda Lettura  - Eb 10, 11-14.18
Vangelo – Mc 13, 24-32

Il Vangelo di questa domenica, al primo ascolto, può sembrarci un po' strano: sembra di trovarsi in uno di quei film definiti “catastrofisti”, che mettono in scena spettacolari cataclismi.
Avete ascoltato bene? Rileggo: “In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”.
Dopo aver sentito frasi del genere non c'è molto da stare allegri, non vi pare?
Il cielo si oscura, la luna si spegne, le stelle cominciano a precipitare sulla Terra, i pianeti cambiano di posto nel cielo... Brrr, proprio un brutto scenario!
Come mai Gesù sta parlando così con i suoi Apostoli? Anche a loro piacevano i racconti catastrofici?
Per capire da dove nascono questi discorsi, dobbiamo fare un passo indietro, nel brano del Vangelo di Marco che precede il pezzettino che abbiamo ascoltato adesso. Tutto nasce dalle esclamazioni ammirate dei Discepoli per il Tempio di Gerusalemme: loro ne esaltano la grandiosità, le pietre preziose, il suo essere maestoso, ed invece il Rabbi li invita a non attaccare il cuore e la fede ad un edificio, per quanto splendido ed importante esso sia; perché anch'esso un giorno sarà distrutto. Sì, anche del meraviglioso Tempio resteranno solo rovine.
Questo in parte scandalizza chi ascolta, e li fa allontanare, ma molti sono proprio spaventati dalle parole del Maestro di Nazareth. Ed ecco che la loro conversazione si sposta su quando il mondo finirà, sui segni che accompagneranno la fine del tempo di questo nostro pianeta.
Gesù risponde con una frase stupenda: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.”
Non dobbiamo spaventarci al pensiero che il cielo e la terra possano essere distrutti, che conoscono una fine, un termine: questo è nell'ordine normale delle cose. Anche se magari non ci pensiamo mai, perché ci sembra un evento lontano e quasi impossibile, anche noi moriremo, tutti quanti: la nostra vita ha avuto un inizio e un giorno avrà anche una fine.
Tutte le cose create, per quanto grandi, magnifiche, potenti... un giorno conosceranno la loro fine, non ci saranno più. Gli scienziati ci dicono che il nostro Sole è ormai a metà della sua storia: una storia moooolto lunga, perché  si spegnerà tra 5 miliardi di anni!
Ora, capisco che a dirlo così ci sembra un futuro molto molto lontano, che di certo non ci riguarda personalmente, ma resta per sempre una realtà. E quando il Sole si spegnerà, anche la nostra Terra non potrà più continuare a vivere. E la Luna non sarà più luminosa. E le stelle e i pianeti non manterranno più il loro posto... Sì, le parole di Gesù dicono una verità che anche gli scienziati condividono: un giorno, il cielo e la Terra, come noi oggi li conosciamo, avranno un termine, una fine.
Però, le parole del Maestro e Signore non si limitano a questa verità: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.”
Ci rassicura: le sue parole NON passeranno, resteranno valide sempre e per sempre, anche quando il tempo sarà ormai finito.
Questo è per noi un messaggio di grande speranza, che apre il cuore alla fiducia. Ci regala un senso di profonda sicurezza, perché siamo appoggiati su una roccia salda, indistruttibile: la Parola del Signore!
Questo non vi scalda il cuore? Non vi colma di gioia?!
Oltre a rassicurare gli Apostoli e noi, il giovane Rabbi suggerisce un esempio prezioso che l'evangelista Marco si premura di riferirci: ci invita ad imparare dal fico. “Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l'estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte.”
Il Maestro sta parlando a persone che vivono in campagna e sanno riconoscere con prontezza tutti i cambiamenti che avvengono nella Natura. Ogni più piccola sfumatura ha per loro un significato preciso, è un linguaggio che conoscono e che comprendono appieno. Proprio per questo Gesù porta l'esempio dell'albero di fico, presente quasi in ogni cortile delle case in Israele: ci si siede alla sua ombra nelle ore più calde; ci si raduna ai suoi piedi, le sere d'estate, a conversare; i suoi rami, dalla corteccia liscia, sono molto invitanti per i bambini che si vogliono arrampicare e i suoi frutti, freschi oppure conservati dopo averli essiccati, fanno parte dell'alimentazione del popolo ebraico.
Quindi, da vero Maestro, sceglie un esempio alla portata di tutti e fa notare che  il comparire delle foglie sui rami, che diventano anche più flessibili, sono il segnale, chiarissimo per tutti, che ormai la stagione sta cambiando e l'estate è in arrivo.
Noi, forse, non abbiamo questo tipo di esperienza: molti vivono in città, senza giardini intorno, tanto meno campi o frutteti. Ma anche noi sappiamo leggere i segni più semplici della Natura: se il cielo si riempie di tante tante nuvole grigie, fitte fitte, voi cosa pensate stia per succedere? Ma certo! Sta per piovere!
Vorrei aggiungere che, anche se molti non sanno più riconoscere il linguaggio della Natura, siamo diventati bravi a leggere le espressioni, anche minime sul volto delle persone intorno a noi. Dite la verità: vi basta notare quella piccola ruga tra gli occhi di mamma, per sapere che oggi non è proprio il caso di fare capricci! D'altra parte, se mentre rientra dal lavoro, ha sul viso quella specie di piccolo sorriso, che si solleva da un lato solo, come se sorridesse per qualcosa che sa solo lei, allora vuol dire che è di buon umore e possiamo raccontarle con foga mille e mille cose!
Il Maestro e Signore chiede, agli Apostoli ed a noi: visto che siete così bravi a leggere e comprendere il linguaggio della Natura e dei volti delle persone, allora potete riconoscere anche ogni altro segno. Perciò, quando vedrete accadere eventi che lasciano senza parole, come terremoti, tsunami, meteoriti che cadono dal cielo... invece di farvi prendere dalla paura, o addirittura dal terrore, considerateli per quello che sono: un segno.
Un segno potente, impressionante, che ci ricorda che non siamo eterni: la nostra anima lo è, ma il nostro corpo finirà. La Parola di Dio è eterna: il mondo intorno a noi invece finirà.
Quegli eventi che ci spaventano, ci aiutano anche a ricordare che la nostra potenza è limitata: malgrado tutti gli sforzi della scienza, nonostante le grandi risorse della tecnologia, anche con in tasca l'ultima generazione di telefonia ed a portata di mano tutto il mondo, grazie a internet ed ai satelliti... noi non siamo Dio.
Questo è ciò che ci ricordano le catastrofi che avvengono in Natura.
Quando ci sentiamo troppo sicuri di noi stessi, quando confidiamo troppo nel nostro grande potere di esseri umani intelligenti, basta una pioggia abbondante e una frana, per farci riflettere e ritrovare il nostro posto nell'Universo: piccoli, fragili, bisognosi del Padre che ha cura di noi, del Figlio che si fa nostro amico, dello Spirito che ci dona la sua forza.

P.G.S.





sabato 7 novembre 2015

Anni 60.


Prima media anno scolastico 1960/1961.


XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B.




Commento a cura di Daniela De Simeis

Prima Lettura1Re 17,10-16
Salmo ResponsorialeSal 145
Seconda Lettura  - Eb 9,24-28
Vangelo – Mc 12,38-44

Nel brano del Vangelo di questa domenica, il Maestro e Signore ha di nuovo cambiato città: si è spostato, non è più a Cafarnao, come domenica scorsa, ma si trova a Gerusalemme. È la capitale, la città santa, il luogo del Tempio: ed è proprio nel Tempio che Gesù pronuncia i discorsi che abbiamo ascoltato quest’oggi.
Non è l’unico Rabbi a insegnare nel Tempio, ma intorno a questo giovane di Nazareth c’è sempre parecchia folla che si ferma ad ascoltarlo, perché parla in maniera semplice ed usa immagini ed esempi che tutti possono comprendere, anche le persone meno istruite.
Il discorso che pronuncia in questa mattina al Tempio di Gerusalemme, comunque, è talmente chiaro e diretto che proprio non c’è il rischio di capire male. Riascoltiamo insieme le parole precise e decise che il Maestro Gesù proclama con forza: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa.”
Il Signore Gesù dice di fare attenzione agli scribi: ma chi erano? Dei pericolosi assassini o briganti? Erano forse degli imbroglioni? Erano gente crudele?
No, in verità, non erano nulla di tutto questo.
Gli scribi appartenevano alla classe delle persone importanti e benestanti del tempo di Gesù: avevano ricchezze, servitori, belle case; spesso avevano studiato e approfittavano della loro cultura per ottenere ulteriori vantaggi.
Per questo Gesù li attacca: non perché posseggono dei beni o perché hanno studiato, ma per il cattivo uso che fanno di questi beni.
Il Maestro e Signore descrive in dettaglio il comportamento di queste persone, usa delle parole così efficaci che ci sembra di vedere gli scribi del suo tempo camminare per le strade, avvolti in abiti bellissimi, fatti di stoffe ricche e colorate, badando a non sporcare l’orlo della veste. Ci sembra di vederli attraversare la piazza della città, ricevendo saluti e inchini da tutti coloro che incontrano; vengono chiamati per nome ed omaggiati con rispetto, e loro rispondono con un breve cenno del capo, mentre procedono tutti orgogliosi e vanitosi perché la gente li riconosce e li saluta.
Forse ci viene facile anche scusarli: un po’ di vanità ce la portiamo tutti appresso; tutti noi siamo contenti di essere ammirati, riconosciuti, salutati con simpatia. Fin qui, credo che tutto sommato non si tratti di una colpa grave.
Quello che invece sembra far proprio arrabbiare Gesù è l’ipocrisia. Cos’è? È la maschera che ci mettiamo sul volto per sembrare diversi da quelli che siamo. È il tentativo di apparire migliori, più buoni, più bravi, di quello che siamo in realtà. Attenzione: non è provare ad essere migliori e magari non riuscirci per la nostra debolezza. Questo è normale, tutti proviamo e non sempre riusciamo. Il Maestro Gesù non se la prende certo per questo! No, lui s’indigna di fronte a chi si atteggia a buono e generoso, ma è solo facciata, è tutta apparenza.
Usa un immagine chiarissima, il nostro amato Rabbi: “pregano a lungo per farsi vedere.”
Che tristezza, vero? Una persona che non si ferma a pregare per stare in compagnia di Dio, per aprire il suo cuore al Padre Buono, per dedicare un po’ di tempo al Signore della vita, per confidargli le gioie, le speranze e le preoccupazioni… No, gli ipocriti, come gli scribi che tanto fanno infuriare Gesù, si fermano a pregare solo per farsi vedere dagli altri.
Non gli importa di Dio, probabilmente non pensano nemmeno al Padre Buono mentre si recano al Tempio, mentre se ne stanno in atteggiamento raccolto: nel profondo del cuore, si fanno i fatti loro. Però se ne stanno in posa, come se pregassero, perché tutti coloro che li vedono, possano dire: - Ma hai visto quanto tempo passa a pregare? Dev’essere proprio un sant’uomo!... ma vedi che non manca mai a una celebrazione, che è sempre compunto e commosso? Deve essere una persona veramente buona, sensibile, che cerca la volontà di Dio… 
A Gesù tutto questo proprio non va giù. Non può accettare che il rapporto con Dio Padre, e la vita di preghiera, diventino una specie di spettacolo, una finta per ottenere complimenti e approvazione.
Anche perché tutta questa ostentata bontà da parte degli ipocriti, alla fine cerca di nascondere un cuore avido, attaccato ai beni, al potere, alle ricchezze.
Ancora una volta Gesù usa un’immagine efficacissima per descrivere quello che realmente cercano gli scribi: “amano... avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove…”
Cioè, sta dicendo il Maestro e Signore: “Quello che realmente interessa a costoro è avere i primi posti nelle sinagoghe, cioè essere considerati importanti, avere potere. Quello che realmente vogliono è essere serviti per primi nei banchetti, così da ottenere nel piatto sempre la porzione migliore, la più abbondante. E il loro desiderio di accumulare beni, li porta a cercare di impadronirsi delle ricchezze degli altri, persino a portare via le case alle povere vedove!”
Ricordiamoci che, al tempo di Gesù, una donna che restava vedova, perdeva la protezione del marito e quindi facilmente cercavano di portarle via ogni ricchezza, compresa la casa in cui viveva.
È una pagina amara, quella di oggi: sentiamo la voce di Gesù arrabbiato, dispiaciuto, addolorato di fronte al comportamento di queste persone.
Forse potremmo avere la tentazione di dirci: - Vabbè, ma noi mica siamo scribi… questo discorso alla fin fine, non ci riguarda!
Invece credo che la frase conclusiva del discorso del nostro Maestro Buono, sia da ricordare a chiare lettere: Essi riceveranno una condanna più severa”
Una condanna più severa: perché?
Perché potevano fare molto, molto, moltissimo bene, e non l’hanno fatto.
Perché potevano vivere davvero da figli di Dio e hanno trascurato ogni occasione di crescere e amare sul serio.
Perché avevano ricevuto tante cose belle: salute, energia, benessere, ricchezze, istruzione… tutti doni stupendi! E invece di comportarsi con gratitudine per tutto questo, lo hanno sciupato, sperperato, fatto appassire.
Perché potevano condividere tutto il bello e il bene di cui era piena la loro vita, e invece hanno scelto l’egoismo, tenendo lontani gli altri da quelle possibilità.
Penso che il rimprovero severo di Gesù ci debba far pensare almeno un pochino: in fondo, per certi aspetti, anche noi assomigliamo agli scribi, per quanto riguarda i doni ricevuti dal Padre Buono.
Anche noi abbiamo salute, energie, possibilità.
Anche noi possiamo andare a scuola, imparare tante cose, scoprire il mondo, ma prenderci pure il tempo per giocare, divertirci, riposare.
Anche noi non dobbiamo vivere con la preoccupazione di cosa mangeremo e di come ci copriremo.
Come gli scribi, possiamo scegliere ogni giorno che cosa fare di tutti gli innumerevoli doni che abbiamo ricevuto.
Possiamo vivere da egoisti o scegliere di condividere.
Possiamo cercare sempre e solo di soddisfare la nostra vanità, la voglia di complimenti e applausi, oppure scegliere di andare incontro a tutti, senza maschere, senza finzioni, con semplicità: con le nostre qualità e le nostre fragilità.
Possiamo vivere da ipocriti, facendo finta di cercare il bene, oppure scegliere di impegnarci ogni giorno a vivere secondo il cuore di Dio.
Fermiamoci allora un istante in silenzio; ripensiamo alle parole di Gesù rivolte agli scribi: che non accada mai di sentirle indirizzate a noi. Con decisione e convinzione scegliamo ora, qui, davanti all’altare, di vivere in trasparenza, senza mai fingere di essere diversi. Sapendo di essere amati dal Padre Buono: amati esattamente così come siamo.




venerdì 6 novembre 2015

Chiesi a Dio.


Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell'umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l'umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!.


Una vocazione nata al San Basilio.

La sua famiglia ad Agrigento, era dedita alla cultura e alla pubblica amministrazione, più che alla vita cristiana. Giuseppe, secondogenito di Vitale Cognata e Rosa Montana nacque il 14 ottobre 1885 nella città dei Templi. Suo padre, affiliato alla massoneria, per la pressione della madre, donna di chiesa, inviò questo figlio, per gli studi secondari al Collegio salesiano San Basilio di Randazzo.
Lì trovò un santo salesiano, formato direttamente da Don Bosco, a fargli da guida. Peppino – così veniva chiamato in famiglia – nel 1900, ne uscì con la licenza ginnasiale e... la vocazione al sacerdozio nella Società Salesiana.
Seguirono aspre lotte in famiglia, ma nel 1901, il ragazzo la spuntò sul padre, ossia sulla loggia massonica, ed entrò felice, tra i Salesiani.

Un curriculum di prestigio

Da subito, sulle orme di Don Bosco, è un innamorato dell’Ausiliatrice e di Gesù Eucaristico: vuole essere “ostia con Gesù”, cioè offerto con Lui, in adorazione a Dio per la salvezza del mondo, sul Calvario e sull’altare del Sacrificio della Messa.
Con il passare degli anni e l’avvicinarsi della meta, questo ideale lo appassiona sempre di più. È studente, novizio e chierico di singolare bontà e virtù, animato sempre dalla gioia di donare, di “servire il Signore nella gioia”, come ha insegnato il Santo Fondatore dei Salesiani ai suoi figli.
Studi filosofici e teologici brillanti. Ampie letture dei classici e degli autori contemporanei. Conoscenza dei maestri di spirito e degli educatori cristiani. Questa la sua formazione e la sua base cristiana ed umana. Nella primavera del 1908, offre a Dio i santi voti per sempre, nelle mani di Don Michele Rua, il primo successore di Don Bosco, oggi Beato.
Il 29 agosto 1909, è ordinato sacerdote da Mons. Arista, Vescovo di Acireale.
Don Giuseppe, ora, va a laurearsi all’Università di Catania, quindi inizia la sua missione di sacerdote e di educatore in mezzo alla gioventù: è insegnante e superiore nei collegi di Bronte (Catania), Este (Padova) e Macerata. Appare presto un salesiano eccezionale, un vero contemplativo nell’azione, con un’intensa vita di unione con Dio e di zelo per la salvezza delle anime. Forma i giovani all’amicizia con Gesù, alla preghiera, al servizio del prossimo. Ha il dono e l’arte dell’amicizia e si fa assai ben volere.
Scoppia la guerra del ’15-18. A lui tocca tornare soldato nella sua Sicilia, in fanteria, a Trapani. Alla fine della guerra, Trapani diventa il suo campo di lavoro: vi fonda e dirige la prima opera salesiana della città, innalza una chiesa all’Ausiliatrice e diventa punto di riferimento per un mondo di persone.
È davvero un salesiano prestigioso: i superiori lo mandano direttore a Randazzo – dove era stato da ragazzo, a Gualdo Tadino in Umbria, al Sacro Cuore, presso la stazione Termini di Roma. Giovani e confratelli sono affascinati dal suo stile impregnato di santità autentica e salesiana.

Il Vescovo della Redenzione

L’11 marzo 1933, a 47 anni, è eletto Vescovo di Bova, nell’Aspromonte Calabrese, da papa Pio XI. A Bova, entra nel giugno 1933. È l’Anno Santo nel XIX centenario della Redenzione operata da Gesù sulla croce. La diocesi che gli è affidata, è una diocesi povera e difficile, con le parrocchie appollaiate tra le gole dell’Aspromonte, con una vita ancor quasi primitiva. Il clero scarso, assenti le suore per l’educazione dei piccoli e l’aiuto ai più poveri. È quasi tutto da fare.
Monsignor Cognata chiede consiglio al papa Pio XI per far fronte. Il Papa lo incoraggia a dar vita ad iniziative nuove con l’agilità e l’arditezza di San Giovanni Bosco che lui ha conosciuto di persona all’Oratorio di Valdocco.
Il giovane Vescovo prega, si consiglia e così già il 17 dicembre 1933, a soli sei mesi dal suo ingresso, dà inizio alle Suore Salesiane Oblate del Sacro Cuore.
Il loro primo impegno è a Pellaio, poi aumentando le vocazioni, si passa presto a lavorare a Bova Marina e alla fondazione di “missioni” in diocesi di origine e in altre della Calabria e della Sicilia.
Ha fregiato il suo stemma vescovile con le parole di San Paolo. Charitas Christi urget nos, la carità di Cristo ci spinge (2 Cor 5,14). A che cosa lo spinge? Ad offrirsi con Gesù crocifisso per la redenzione del mondo. L’Anno Santo della Redenzione, in corso nella Chiesa lo spinge a questa offerta sempre più intensamente, sempre più consapevole che in questa offerta sta la perfezione della vita cristiana, ancor più del sacerdozio nella sua pienezza di Vescovo.
Fin dagli anni precedenti alla sua ordinazione presbiterale, egli meditava e viveva il sacerdozio come totale offerta e sacrificio di sé con Gesù Sacerdote e Ostia del suo Sacrificio: «È stato sacrificato perché lo ha voluto e non ha aperto bocca» (cf Is 53,7). Con l’ordinazione episcopale intuisce che deve inserirsi sempre più nell’oblazione del Salvatore per la salvezza delle anime che gli sono affidate.
Da anni ormai, da quando era diventato sacerdote, Mons. Cognata si era offerto, segretamente, vittima a Dio per il ritorno del padre, affiliato alla massoneria, alla vita cristiana e ai Sacramenti.
Suo padre non aveva voluto saperne di partecipare alla sua ordinazione sacerdotale, ma era stato presente alla sua consacrazione episcopale nella Basilica del Sacro Cuore a Roma, quando il figlio Vescovo tacitamente aveva rinnovato la sua offerta per lui.
Al momento della fondazione del suo Istituto, affida alle sue figlie l’oblazione con Cristo, come ideale e stile di vita, nell’umiltà, nella piccolezza, nel sacrificio, nella ricerca dei luoghi più poveri e più difficili. Fin dagli inizi, egli parla loro di «completa oblazione per la causa della redenzione delle anime». Le richiama continuamente a Gesù Oblato Divino e modello di oblazione, perché «siano consacrate al suo Cuore da cui è iniziato l’olocausto per la salvezza del mondo». Egli dà al suo Istituto come protettore San Paolo, l’apostolo dell’oblazione e della carità.
Mons. Cognata insegna che «la parola d’ordine dell’oblazione è: tutto per Gesù», e che le sue suore dovranno vivere in totale unione con Gesù-Ostia nel sacrificio eucaristico dell’altare.
Per le sue suore e per tutti i suoi diocesani, ad iniziare dai suoi preti, spiega che «l’Oblazione è la perfezione della vita cristiana vissuta in olocausto di carità, uniti a Gesù, che tutto offrì per nostro amore».
In una parola, Mons. Cognata appare a chi lo vede e lo segue, come il Vescovo della Redenzione e perciò dell’oblazione con Gesù.
Affascina tutti con la sua sconfinata capacità di amare: uomo tutto di Dio e tutto degli altri nella continua ricerca della carità teologale. Chi lo ha conosciuto ha testimoniato che “nessuno sapeva amare come lui” e che “tutto in lui, la dolcezza, il tratto, il sorriso, lo sguardo, l’azione, tutto è espressione di amore”.

Sul Calvario

Sette meravigliosi anni di episcopato, trascorsi nel modo appena descritto. Poi attorno a lui, si scatena la bufera. Si era offerto vittima e Dio lo prende in parola, permettendo per lui una prova durissima, di eccezionale durata e pesantezza, una croce legnosa e trafiggente per lunghissimi anni.
Contro di lui, arrivano aspre calunnie che giungono fino al Papa.
Pio XI prende le sue difese. Seguono malcontenti interni al suo Istituto e una ribellione al Vescovo fondatore da parte di alcune Oblate che lasciano l’Istituto e pensano di fondarne un altro. Mons. Cognata interviene come padre e superiore, ma gli viene giurata vendetta. Partono altre calunnie e denunce. Una bufera contro di lui, senza limiti, in cui il suo sacrificio tocca il vertice. Gli viene proibito il governo del suo Istituto e il 5 gennaio 1940 si vede obbligato a rinunciare alla diocesi. D’ora in poi non potrà esercitare il suo ministero episcopale. “Umile e mite come la vittima sul Calvario – scrive di lui Don Luigi Castano – Mons. Cognata accetta in silenzio e si offre, come modello di perfetta obbedienza ed oblazione: così permette per lui il Divino Modello”.
Va a vivere con i confratelli salesiani a Castello di Godego (Treviso), accettando il suo nuovo stato di vita come compimento di un voto fatto a Dio per ottenere la grande grazia della conversione di suo padre. È sacrificio fecondo, come il seme caduto in terra che porta molto frutto: suo padre ritorna alla fede, anche se non c’è il figlio ad assisterlo nella sua agonia. Quante altre anime siano tornate a Dio per il suo sacrificio, solo Dio lo sa.
Per 32 anni, fino alla morte, Mons. Giuseppe Cognata vive nel nascondimento, nella preghiera, nell’umile e fecondissimo lavoro sacerdotale, soprattutto di direttore spirituale, in perfetta oblazione sacrificale di sé, come Gesù sulla croce.
La sua vita può essere riassunta nella pagina mirabile del Servo di Jahvé, profetizzato da Isaia: «Si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53,7).
Chi lo avvicina, confratelli salesiani, sacerdoti, suore, religiosi e laici, ha l’impressione di aver incontrato un santo, un grande maestro di intimità e di sacrificio con Gesù.
Diffonde luce, coraggio, fiducia e gioia in una paternità avvolgente. Nobilissima figura, ricco di dottrina, sapienza, e della santità della dolcezza di San Francesco di Sales. Devotissimo all’Ausiliatrice, indirizza sempre a Lei coloro che incontra, sicurissimo che la Madonna risponde sempre a chi lo invoca.
«Il suo cuore, dirà Mons. Solari, nel dolore più profondo è maturato un amore straordinario: comprensivo, paziente, tenero, forte e allo stesso tempo dolce. Come Gesù sul Calvario: così è vissuto negli anni dell’esilio».
Ma nel 1962 chi l’aveva calunniato, prima di morire ritratta tutto quello che aveva detto contro di lui. Così, con immensa gioia, il papa Giovanni XXIII lo riabilita e Mons. Giuseppe Cognata può partecipare al Concilio Vaticano II.
Il 29 gennaio 1972, ha la gioia di vedere l’Istituto che ottiene il pieno riconoscimento pontificio.
Viene invitato a Roma, dove non può mancare per quell’ultima festa dedicata a lui, che ha versato lacrime di sangue, ma che ora viene riconosciuto come Fondatore.
Da Roma si reca a Pellaro, là dove 40 anni prima era nata la sua Opera.
Il 22 luglio 1972, Mons. Cognata va all’incontro con Dio: Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, ma quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza e si compirà per mezzo suo la volontà del Signore (Is 53,10).

                                                                                                                      Autore: Paolo Risso

Una divertente giornata di neve al San Basilio.






giovedì 5 novembre 2015

SOLZENICYN ALEKSANDR J. (Kislovodsk, 11 dicembre 1918 – Mosca, 3 agosto 2008) )


La preghiera

Com'è facile vivere con Te, Signore!
Com'è facile credere in Te!
Quando il mio intelletto confuso
si ritira o viene meno,
quando gli uomini più intelligenti
non vedono al di là di questa sera
e non sanno che fare domani,
Tu mi concedi la chiara certezza
che esisti e ti preoccupi
perché non vengano sbarrate
tutte le vie che portano al bene.
Sulla cresta della gloria terrena
io mi volto indietro stupito
a guardare la strada percorsa
dalla disperazione a questo punto
donde fu dato a me comunicare
all'Umanità un riflesso, dei Tuoi raggi.
Dammi quanto m'è necessario
perché continui a rifletterli.
E per quello che non riesco a fare,
so che Tu hai destinato
altri a compierlo.